lunedì 17 aprile 2023

UN FIORE SUL SENO

Oggi sono quattro anni che la parte cattiva di me è stata tagliata, strappata via dal mio corpo. Il “brutto male” che si era fatto spazio nella mia carne, che da essa stessa si nutriva, quattro anni fa veniva staccato e lasciato morire affamato. Me lo avevano diagnosticato appena quaranta giorni prima, in una stanza dell’ospedale Incurabili - eh già, il nome farebbe anche ridere se non si conoscesse la storia di Maria Longo, divenuta poi Santa Maria degli Incurabili – in una mattina di inizio marzo. Nell’anticamera della stanza semibuia, da cui si intravedevano dei monitor ed un lettino ricoperto da un lenzuolo bianco, avevo rincuorato le altre pazienti, utilizzando la mia consueta ironia per smorzare l’ansia dell’attesa. Avevo sorriso poi a chi aveva lasciato il lettino prima di me e, dopo appena venti muniti, ero uscita in lacrime da quella stessa stanza, probabilmente spaventando chi prima avevo rallegrato, ma la paura, si sa, non conosce pudore.

Il 17 aprile del 2019 entravo in sala operatoria con gli occhi annacquati, e più mi dicevano di stare tranquilla, più mi accarezzavano e mi tenevano la mano, più avvertivo tutta la drammaticità del momento.

Non sei un caso unico. Sei una delle tante. È stato tutto già sentito, raccontato, superato.
Ci si abitua al dolore, alla malattia e anche all'idea della morte.
È tutto previsto, tutto spiegato.
Fa clamore la novità, e tu non sei una novità.
Stai male e non sei autorizzata a soffrire perché ci sono passate già altre, e molte sono state più brave di te, sono state guerriere mentre sfidavano un ago con un sorriso.
Sì, a qualcuna è andata male. Ma sono casi, ci può stare, è nella statistica.
E ti chiedi se ti è concesso essere triste, spaventata.
Ti dicono che non devi preoccuparti, tanto si cura. "Avanti, su, non hai una malattia originale, devi capire che càpita, che sei una delle tante".
Sono una delle tante.
"Passerà. Passa quasi a tutte".
Sono una delle tante, una delle tante, sì, ma un pezzo di corpo malato è molto più di una statistica, è il primo colpo da cui non sei riuscita a difenderti, è il nemico che prende il sopravvento. È vero che ciascuno ha il suo nemico, che prima o poi diventa visibile a tutti. È vero che non sei la sola, ma vorresti anche tu il tuo tempo, la comprensione, il rispetto per il tuo dolore.
Ti dicono "passerà", "tutto si supera", e intanto? Intanto cosa faccio? Faccio finta di nulla? Guardate che la vita è "intanto", la dobbiamo vivere tutta.
Non mi dite "passerà", io non voglio restare in standby, che poi troppo standby equivale a morire. Io non voglio perdermi niente, neanche il dolore, la paura, io ci voglio essere, non voglio fermarmi ad aspettare che passi. Da bambina detestavo il sonno pomeridiano, mi ribellavo, non volevo addormentarmi durante le ore del giorno, ché tanto ci sarebbe stata la notte intera per dormire, non potevo perdermi niente, gli altri vivevano e io non volevo rinunciare neanche a un pezzetto minuscolo di vita, figuriamoci se lo voglio fare adesso.
No, non sono una guerriera. Io la guerra non la faccio a nessuno. Proprio non la so fare, la guerra. Accolgo tutto, anche questo nemico.
Non sono stata originale. Non interessa a nessuno l'ennesimo triste racconto sulla sofferenza, sulla paura.
"Non devi stare male. Devi andare avanti e pensare ad altro".
E io mi chiedo cosa sia "altro". Forse il lavoro, il pranzo, la casa. Oppure le emozioni nuove, la spiritualità, l'essenza degli incontri, di ogni accadimento? O le persone che amo e davanti alle quali vorrei apparire sempre perfetta, quelle che adesso mi sembra di accusare. Quelle che vorrei proteggere perché non si sentano responsabili. Cosa è altro se per ogni altro che esiste ci devo mettere il corpo e comunque devo essere presente, partecipe, e adesso la mia anima, che è poi il mio corpo, mi sta dicendo che basta, basta tutto, che non ce la fa più. Altro non c'è. C'è solo questo segno sul seno, e ci sono io, una delle tante.

Alla fine, è andata bene, sta andando bene, mi resta una cicatrice, una protesi e l’amore di chi ho avuto accanto. 

Il cancro fa schifo, non è un dono, non mi ha reso una guerriera, ma ha riempito il mio sguardo di longanimità.

(Il girasole l'ho disegnato nei giorni successivi all'intervento)