Salire le scale del San Paolo nel maggio del 1987, farsi spazio in quel corpo caldo e azzurro, quell’unico corpo composto da tanti pezzi, tutti diversi, fu come salire sul palco di un cinema e passare attraverso la tela, entrare in un film. Avevo sedici anni e quel film avevo cominciato a sognarlo da poco, ma quella scenografia accoglieva mille altri riscatti.
Lo sapeva mio padre che, per scaramanzia, aveva sempre mantenuto un atteggiamento controllato e quel 10 maggio stappò sul balcone la bottiglia di spumante, che teneva conservata per l’occasione; lo sapeva mia madre, che rimase dietro il vetro a piangere.
Il mare non bagna Napoli, ma le luci del Maradona la illuminano tutta: da Fuorigrotta a Scampia, dai vicoli del centro storico alle strade ampie di Mergellina, dalla Sanità a Posillipo, dalla collina del Vomero alla pianura laboriosa di San Giovanni a Teduccio, dove, dal 2017, domina il più grande murale al mondo dedicato a Diego Armando Maradona, realizzato da Jorit.
Non fu un caso che la vittoria del primo scudetto divenne matematica a Napoli, al termine della partita con la Fiorentina, e soprattutto non fu un caso che fosse il giorno della festa della mamma, perché noi lì, su quegli spalti, eravamo tutti fratelli, che avevamo difeso con orgoglio, e ancora continuiamo a farlo, la nostra genitrice.
L’undici maggio del 1987, fuori allo stadio, sulle auto, sui balconi napoletani c’era un’unica scritta: IO LAVORO E PENSO A TE, per provare a spiegare ancora una volta questo senso di appartenenza, questo amore che ci fa riconoscere e ci rende grati, ma anche per sottolineare la dignità di un popolo che resta fiero e attivo, che va avanti, nonostante tutto.
Anche oggi io lavoro e penso a te, aspettando un'altra festa della mamma.
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per il tuo contributo