Ieri sera sono andata a vedere La pazza gioia, l’ultimo film
di Virzì con Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, ed ancora adesso ne
avverto i postumi. Sono uscita dal cinema commossa ed un po’ angosciata. Il
tema della follia mi affascina e mi spaventa al tempo stesso, per quanto possa
essere labile il confine tra equilibrio e pazzia, e per quanto sia difficile
stabilire un punto di non ritorno. Sì, perché se alcuni comportamenti ritenuti
folli possano essere interpretati come espressione di libertà, di spontaneità o
semplicemente di fragilità, tanto da apparire atti di coraggio, tanto da fare
invidia al popolo dei ‘normali’, quando questi stessi comportamenti procurano
dolore e sofferenza al folle, non suscitano più ammirazione o tenerezza, ma
fanno paura. Se per essere libero,
spontaneo, devo rischiare di essere etichettato come folle, beh, allora meglio
la normalità che mi consente di agire nell’anonimato e di mietere vittime,
piuttosto che la sana pazzia che mi fa sì gioire, ma mi relega ad un ruolo
scomodo e di emarginazione irreversibile.
Le due protagoniste sono donne belle, molto diverse l’una
dall’altra, una elegante, raffinata e molto sensuale, l’altra più dura ed
arrabbiata, ma entrambe fragili e pericolose. Una fragilità che le ha rese
facili prede di uomini squallidi e volgari, ma che puntualmente si ritorce loro
contro.
La prima, la sofisticata Beatrice (Carla Bruni), sempre alla
ricerca di conferme maschili, può definirsi vittima di un egocentrismo e di un
desiderio sessuale facilmente riconducibili ad una reale patologia, è l’esasperazione di una
tipologia di donna molto diffusa. Ne conosco tante di donne come lei: piene di
vita, di delicate espressioni e fragili paure, pronte a diventare schiave di
uomini rozzi che di loro non sapranno mai cogliere la bellezza, che le
offenderanno, le umilieranno, attori inconsapevoli, obbedienti al ruolo di carnefice
che le loro vittime gli hanno attribuito dall’inizio.
La seconda, la giovane Donatella (Micaela Ramazzotti),
diffidente e corazzata, frutto di un’esistenza resa difficile da genitori pavidi ed infantili, esposta alla
crudeltà di un uomo che non ha alcun rispetto per lei e per il figlio che da
lei ha avuto. Ed è l’amore per questo figlio che rende Donatella tremendamente
infelice, per quello che vorrebbe e non può essere, ma è sempre per questo amore
che trova la forza di continuare e di abbandonare un po’ di follia. Anche di
Donatelle ne conosco, di madri che per proteggere i propri figli, finiscono per
apparire meno mamme di altre, ma non hanno proprio nulla di ‘sbagliato’.
Spero di smaltire i postumi quanto prima, ma nel frattempo,
viva i folli, ma attenti a non raggiungere mai il punto di non ritorno.
Brava! Mi complimento per aver saputo cogliere il lato filosofico e antropologico del film. Io sono stato un pò più duro, forse perché accecato più dal lato clinico che in un certo qual senso avevo studiato in passato. Entrambi però abbiamo un punto in comune: sappiamo riconoscerli in mezzo a noi! :-)
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