venerdì 18 agosto 2023

RACCONTI REFRIGERANTI II STAGIONE - 1° episodio - LA PARMIGIANA DI MELANZANE

Friggere le melanzane il trenta luglio non era proprio uno dei desideri principali di Anita, ma sapeva che una sudata davanti ai fornelli sarebbe stato un prezzo minimo da pagare per vedere la gioia sul viso di Fabrizio, il figlio spagnolo, appena avrebbe varcato la soglia di casa. Certo, dopo sette mesi, sarebbe stato comunque felice di riabbracciare la mamma e la sorella, ma Anita sapeva che la parmigiana di melanzane era il miglior bentornato che il suo ragazzo potesse avere. Intanto, friggeva e sudava, infilzava le fette di melanzana con il forchettone, le girava e si asciugava la fronte con lo strofinaccio.

<<Monica!>>

<<Dimmi, mamma.>>

<<Ne Monica, ma comm'è che decidemmo di non mettere l'aria condizionata in questa sfaccimma di cucina? Comm'è stat 'o fatt?>>

<<Mamma, un'altra volta? Ogni volta che cucini d'estate dici la stessa cosa, ma non te lo ricordi oppure vuoi scherzare?>>

<<Dimmelo, dimmelo ancora.>>

<<Fu una tua scelta, dicesti che...>>

<<… che bastava nelle camere da letto, in cucina la finestra aperta avrebbe rimediato al caldo e agli odori. Così dissi, da perfetta idiota, e nessuno mi fermò, tu e tuo fratello, che tra l'altro voleva regalarmi tre split benedetti, mi avete assecondata, dopo un timido tentativo di farmi cambiare idea, avete assecondato vostra madre, la donna stoica che non si lamenta mai.>>

<<La verità, negli ultimi due anni, sarà che siamo rimaste noi due, senza nessuna presenza maschile in casa, con gli squilibri ormonali, ma tu ti lamenti abbastanza.>>

<<Tuo padre non può tornare, purtroppo, pace all'anima sua, non può più aiutarmi, tuo fratello, invece, mo potrebbe pure tornare, visto che l'azienda gli farebbe fare lo smartworking.>>

<< Ma lascialo stare, a Valencia sta una bellezza, tu devi solo abituarti all'idea che non puoi più stare sola, devi trovarti un fidanzato.>>

<<Eeeeh, vabbè, ja, aiutami a tagliare la provola, stai zitta.>>

Il sugo lo aveva preparato la mattina, ma prima di metterlo nella teglia, aveva aggiunto altre foglie di basilico fresco strappate dalla pianta appoggiata sul davanzale interno della finestra.

<<Mamma, ma lo sai che molti mettono la mozzarella nella parmigiana? Qualcuno pure il fiordilatte, tu sempre con la provola.>>

<<Ma adesso non ti piace più la mia parmigiana? Fino a stamattina era il mio piatto forte, la mia specialità, e adesso critichi pure la provola?>>

<<Uffa! Non è una critica, è una curiosità. Ti devo trovare un fidanzato, è urgente, la situazione sta precipitando.>>

Anita si gira verso la figlia e la guarda battendo le ciglia con la testa leggermente inclinata ed un sorriso stupido a labbra serrate.

<<Non sono poi così sicura che tu possa trovare un fidanzato, effettivamente, chi se la prende 'sta bambolina inquietante? Mammamia!>

La donna prende un pezzo di provola e lo infila nella bocca della figlia, che comincia a ridere sputando fuori la gomma lattosa e dopo pochi secondi sono abbracciate entrambe con gli occhi umidi.

Alle sette della sera è già tutto pronto, la parmigiana è in forno, spento mezz'ora prima, il pane cafone è sul tagliere, il vino con le percoche è in frigo e la mozzarella è nel piatto fondo immersa nel suo latte.

I taralli con le mandorle sono in una ciotola sul tavolo, accanto ad un cestino pieno di tarallini verdognoli al gusto di friarielli. La tavola è ricca di colori, dai piatti ai bicchieri, ai tovaglioli, è tutta una festa.

Monica scatta foto ad ogni piccola prelibatezza gastronomica, che userà per ricattare la madre nei giorni in cui vorrà che le prepari il poke; Anita è alla finestra che aspetta Fabrizio, ma soprattutto prova a nascondersi, non vuole farsi vedere mentre invia alcuni messaggi WhatsApp; la luna è quasi piena, il cane del vicino abbaia e un tuono lontano riunisce madre e figlia accanto al tavolo della cucina. Come accade ogni volta che qualcosa le spaventa, si cercano, si guardano, in un gioco di equilibri che rassicura.

Suonano alla porta.

<<Eccolo!>>

Sussurrano insieme. Procedono lentamente verso l'ingresso, Monica apre la porta, mentre Anita si sistema i capelli con la testa un po' abbassata, poi alza gli occhi e lo vede, il suo Fabrizio è lì, davanti a lei, è più bello ancora di come era apparso durante l'ultima videochiamata, ha i capelli perfettamente pettinati, lui, sorride, ma in modo stranamente timido; accanto c'è un altro ragazzo, sembra essere suo coetaneo, ha i capelli un po' più chiari e un po' più lunghi, per un attimo Anita ha come l'impressione di aver visto la mano di Fabrizio scattare via dalla mano del ragazzo, proprio mentre si apriva la porta e lei, con la testa bassa, si aggiustava i capelli, avendo lo sguardo puntato più o meno ad un metro da terra. Si abbracciano, madre e figlio, si baciano, mentre Monica libera le mani del fratello dalla valigia e da una busta del duty-free, poi Fabrizio si allontana un po' e lo dice, dice quello che Anita sta già immaginando da qualche minuto: <<Mamma, Monica, lui è Valerio.>>

Anita prende il viso di Valerio tra le mani, gli sorride e corre via in cucina.

Monica dà un bacio al fratello e segue la madre.

<<Mamma>>

Anita si gira e la fissa.

<<Lo so, lo avevo detto a Fabrizio di parlartene prima, ma lui diceva che non era necessario, che tu sei una mamma speciale, che forse già avevi capito...>>

<<Monica, tesoro mio, ti ricordi come stavamo io e te poche ore fa?>>

<<Sì, e potremo stare meglio, cosa è cambiato?>>

<<Monica, la provola dico, la provola che avevi tagliato, la vedi dove sta? Ancora nel piatto. Mentre andavamo ad aprire la porta l'ho visto, ho visto quelle fettine abbandonate, un po' ingiallite dal caldo, in quel cazzo di piatto. >>

<<Ah, questo è il motivo per cui sei corsa qui?>>

<<Che figura di merda!>>

<<Io credevo...>>

<<Che ho un figlio ricchione l'ho capito prima di lui, il fatto è che se a questo Valerio gli facciamo assaggiare la parmigiana senza provola, quello se ne viene che è meglio la paella che fa lui. E questo non deve assolutamente succedere.>>

<<E allora?>>

<<Allora diciamo che l'hai fatta tu.>>

<<Va bene Anita, va bene, comunque, la figura di merda l'hai fatta lo stesso, ed è evidente: tuo figlio ha trovato un fidanzato prima di te.>>

<<Cretina>>

E ridono.




domenica 16 luglio 2023

JE T’AIME, MOI NON PLUS

Scrivo mentre in sottofondo Jane Birkin sussurra a Serge Gainsbourg, ansimando, “Je t’aime” e lui le risponde “Moi non plus”, avendo appreso da poco della morte della bella artista britannica.
Serge Gainsbourg scrive la canzone per Brigitte Bardot nel 1967, durante la loro relazione durata pochi mesi, e insieme a lei la interpreta, ma non la pubblica, per evitare che il marito della sua amante, avendo scoperto il tradimento, chieda il divorzio. La canzone viene poi pubblicata nel 1969 e nel ruolo femminile c’è Jane, che nel frattempo ha sostituito Brigitte, anche nella vita privata di Serge.
Scandalo e successo vanno spesso di pari passo, così vengono immediatamente vendute più di cinque milioni di copie di quello che è senza dubbio la simulazione di un rapporto sessuale, erotico, non pornografico.
Censurata dalla RAI, la canzone continua ad essere ascoltata in Italia, tramite Radio Monte Carlo e Radio Capodistria e arriva ai primi posti delle classifiche di gradimento, poi, su segnalazione dell’Osservatore Romano, viene completamente oscurata e il distributore viene ritenuto colpevole penalmente per il carattere pornografico del brano.
La prima volta che l’ho ascoltata, da adolescente, cresciuta con la radio sempre accesa, avevo scarsissime conoscenze della lingua francese e tradussi il titolo con “Ti amo, io non più”, sentivo in quell’ansimare tutta la drammaticità della fine di una storia. Più tardi, ho saputo che il senso era un altro, letteralmente: Ti amo, io neanche. Pare che l’autore abbia voluto scimmiottare Dalì che diceva di Picasso: “Picasso est spagnol, moi aussi. Picasso est un génie, moi aussi. Picasso est communiste, moi non plus.” Ovvero: Picasso è spagnolo, anche io. Picasso è un genio, anche io. Picasso è comunista, neanche io. (Fonte Wikipedia)
Ecco il senso della canzone, che poi è il senso della rivoluzione sessuale: ti amo, neanche io.
Nel senso che non è necessario amarsi per fare sesso e non è necessario che tu, donna, ti convinca di amarmi per farlo: tu non mi ami e lo stesso io.
Va bene, viva la rivoluzione, difendo la libertà, anche in campo sessuale, ma ho una certa idea di amore, che cambia, si evolve ad ogni esperienza della vita, che ha a che fare con la mancanza di esclusività, di limiti temporali, di obblighi e di forma.
Sono sicura che possano esistere rapporti sessuali senza amore, ma difficilmente il desiderio reciproco è estraneo all’amore. Perché non dovremmo fidarci del corpo? Perché dovremmo sottovalutare ogni azione mossa dall’istinto? Non c’è niente di sbagliato nei rapporti fisici, perché un rapporto che coinvolge il corpo non può essere estraneo all’anima. Il male, l’errore, ça va sans dire, è nel rapporto in cui manca la reciprocità, in cui non c’è sincerità.
L’amore è dappertutto, lo dice anche un film delizioso, lo dico sempre io, che nel corpo e nei suoi segnali credo fortemente.
Probabilmente apparirò una sognatrice, un po’ infantile (giuro che ero più cinica qualche anno fa), ma alle varie versioni di “Je t’aime, moi non plus”, preferisco quella di Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer: “Ti amo, io di più”, perché spesso quello che si nega con le parole, viene con il corpo.
Quindi, rispondere “neanche io” ad un ti amo è come dire: cosa ci importa di dare un nome a quello che sentiamo adesso? Mi ami, non mi ami, intanto io vengo e vado dal tuo corpo, che mi accoglie e mi comprende e va bene così.

Sì, va bene così, se entrambi comprendono la sacralità di un amplesso, se credono al miracolo che si compie ogni volta che due corpi si scambiano quello di cui hanno bisogno, che importa quanto dura la storia e se c’è una storia, basta che ci sia reciprocità e sincerità.

 

 


mercoledì 10 maggio 2023

DIECI ANNI CHE PROVO AD APRIRE UN BLOG

Dieci anni fa, in una sonnolenta e uggiosa mattina di maggio, camminando scalza in casa, come spesso faccio, ho urtato il piede sinistro contro il taglio di una porta, in modo talmente violento e doloroso da non riuscire neanche ad urlare.  Sono andata ugualmente in ufficio, certa che un po’ di gel antidolorifico ed una leggera fasciatura avrebbero annullato qualsiasi conseguenza. Invece, dopo pochi giorni, nel centro diagnostico in cui mi ero recata a fare una radiografia, venivo affettuosamente redarguita per non essere rimasta ferma ad aspettare che l’ossicino del quinto dito, visibilmente fratturato, si ricomponesse. Il radiologo, con tono paternalistico, mi aveva fatto notare che la cattiva postura, adottata per non gravare sulla frattura, mi avrebbe inevitabilmente provocato danni alla colonna vertebrale, le parole che mi convinsero a rispettare il consiglio furono più o meno queste: <<Non ci devi camminare sopra, se no te ven’ ‘o scartiello.>> Ecco, terrorizzata dall’immagine di me piegata a mo’ di strega di Biancaneve, sono rimasta ferma un paio di settimane e in quei giorni ho deciso di combattere la noia con le parole: il dieci maggio del 2013 nasceva il mio blog. Lo avevo chiamato scherzosamente “Provo ad aprire un blog”, poi, dopo qualche mese, l’ho rinominato “Il mondo di Mavi”, come lo chiamavano i lettori.

Alcuni post non li riscriverei, altri li modificherei nella forma ed altri ancora torno a rileggerli di tanto in tanto perché sono venuti proprio bene.



lunedì 17 aprile 2023

UN FIORE SUL SENO

Oggi sono quattro anni che la parte cattiva di me è stata tagliata, strappata via dal mio corpo. Il “brutto male” che si era fatto spazio nella mia carne, che da essa stessa si nutriva, quattro anni fa veniva staccato e lasciato morire affamato. Me lo avevano diagnosticato appena quaranta giorni prima, in una stanza dell’ospedale Incurabili - eh già, il nome farebbe anche ridere se non si conoscesse la storia di Maria Longo, divenuta poi Santa Maria degli Incurabili – in una mattina di inizio marzo. Nell’anticamera della stanza semibuia, da cui si intravedevano dei monitor ed un lettino ricoperto da un lenzuolo bianco, avevo rincuorato le altre pazienti, utilizzando la mia consueta ironia per smorzare l’ansia dell’attesa. Avevo sorriso poi a chi aveva lasciato il lettino prima di me e, dopo appena venti muniti, ero uscita in lacrime da quella stessa stanza, probabilmente spaventando chi prima avevo rallegrato, ma la paura, si sa, non conosce pudore.

Il 17 aprile del 2019 entravo in sala operatoria con gli occhi annacquati, e più mi dicevano di stare tranquilla, più mi accarezzavano e mi tenevano la mano, più avvertivo tutta la drammaticità del momento.

Non sei un caso unico. Sei una delle tante. È stato tutto già sentito, raccontato, superato.
Ci si abitua al dolore, alla malattia e anche all'idea della morte.
È tutto previsto, tutto spiegato.
Fa clamore la novità, e tu non sei una novità.
Stai male e non sei autorizzata a soffrire perché ci sono passate già altre, e molte sono state più brave di te, sono state guerriere mentre sfidavano un ago con un sorriso.
Sì, a qualcuna è andata male. Ma sono casi, ci può stare, è nella statistica.
E ti chiedi se ti è concesso essere triste, spaventata.
Ti dicono che non devi preoccuparti, tanto si cura. "Avanti, su, non hai una malattia originale, devi capire che càpita, che sei una delle tante".
Sono una delle tante.
"Passerà. Passa quasi a tutte".
Sono una delle tante, una delle tante, sì, ma un pezzo di corpo malato è molto più di una statistica, è il primo colpo da cui non sei riuscita a difenderti, è il nemico che prende il sopravvento. È vero che ciascuno ha il suo nemico, che prima o poi diventa visibile a tutti. È vero che non sei la sola, ma vorresti anche tu il tuo tempo, la comprensione, il rispetto per il tuo dolore.
Ti dicono "passerà", "tutto si supera", e intanto? Intanto cosa faccio? Faccio finta di nulla? Guardate che la vita è "intanto", la dobbiamo vivere tutta.
Non mi dite "passerà", io non voglio restare in standby, che poi troppo standby equivale a morire. Io non voglio perdermi niente, neanche il dolore, la paura, io ci voglio essere, non voglio fermarmi ad aspettare che passi. Da bambina detestavo il sonno pomeridiano, mi ribellavo, non volevo addormentarmi durante le ore del giorno, ché tanto ci sarebbe stata la notte intera per dormire, non potevo perdermi niente, gli altri vivevano e io non volevo rinunciare neanche a un pezzetto minuscolo di vita, figuriamoci se lo voglio fare adesso.
No, non sono una guerriera. Io la guerra non la faccio a nessuno. Proprio non la so fare, la guerra. Accolgo tutto, anche questo nemico.
Non sono stata originale. Non interessa a nessuno l'ennesimo triste racconto sulla sofferenza, sulla paura.
"Non devi stare male. Devi andare avanti e pensare ad altro".
E io mi chiedo cosa sia "altro". Forse il lavoro, il pranzo, la casa. Oppure le emozioni nuove, la spiritualità, l'essenza degli incontri, di ogni accadimento? O le persone che amo e davanti alle quali vorrei apparire sempre perfetta, quelle che adesso mi sembra di accusare. Quelle che vorrei proteggere perché non si sentano responsabili. Cosa è altro se per ogni altro che esiste ci devo mettere il corpo e comunque devo essere presente, partecipe, e adesso la mia anima, che è poi il mio corpo, mi sta dicendo che basta, basta tutto, che non ce la fa più. Altro non c'è. C'è solo questo segno sul seno, e ci sono io, una delle tante.

Alla fine, è andata bene, sta andando bene, mi resta una cicatrice, una protesi e l’amore di chi ho avuto accanto. 

Il cancro fa schifo, non è un dono, non mi ha reso una guerriera, ma ha riempito il mio sguardo di longanimità.

(Il girasole l'ho disegnato nei giorni successivi all'intervento)


mercoledì 22 febbraio 2023

IO LAVORO E PENSO A TE

Salire le scale del San Paolo nel maggio del 1987, farsi spazio in quel corpo caldo e azzurro, quell’unico corpo composto da tanti pezzi, tutti diversi, fu come salire sul palco di un cinema e passare attraverso la tela, entrare in un film. Avevo sedici anni e quel film avevo cominciato a sognarlo da poco, ma quella scenografia accoglieva mille altri riscatti.


Lo sapeva mio padre che, per scaramanzia,  aveva sempre mantenuto un atteggiamento controllato e quel 10 maggio stappò sul balcone la bottiglia di spumante, che teneva conservata per l’occasione; lo sapeva mia madre, che rimase dietro il vetro a piangere.

Il mare non bagna Napoli, ma le luci del Maradona la illuminano tutta: da Fuorigrotta a Scampia, dai vicoli del centro storico alle strade ampie di Mergellina, dalla Sanità a Posillipo, dalla collina del Vomero alla pianura laboriosa di San Giovanni a Teduccio, dove, dal 2017, domina il più grande murale al mondo dedicato a Diego Armando Maradona, realizzato da Jorit.

Non fu un caso che la vittoria del primo scudetto divenne matematica a Napoli, al termine della partita con la Fiorentina, e soprattutto non fu un caso che fosse il giorno della festa della mamma, perché noi lì, su quegli spalti, eravamo tutti fratelli, che avevamo difeso con orgoglio, e ancora continuiamo a farlo, la nostra genitrice.

L’undici maggio del 1987, fuori allo stadio, sulle auto, sui balconi napoletani c’era un’unica scritta: IO LAVORO E PENSO A TE, per provare a spiegare ancora una volta questo senso di appartenenza, questo amore che ci fa riconoscere e ci rende grati, ma anche per sottolineare la dignità di un popolo che resta fiero e attivo, che va avanti, nonostante tutto.

Anche oggi io lavoro e penso a te, aspettando un'altra festa della mamma.



domenica 12 febbraio 2023

LA MIA VITTORIA A SANREMO 2023

 -Allora, Mariavittoria, il festival ti sta piacendo?

È la prima domanda che mi rivolge il mio parrucchiere, appena mi siedo nel suo negozio, sabato mattina. Lo sa che seguo Sanremo, ne parliamo ogni anno e gli piace stuzzicarmi.
-Bravo, eh, Amadeus?
-Amadeus è un Pippo Baudo, meno colto e severo, e soprattutto fuori tempo. Quello che fa è tutto vecchio.
-Beh, effettivamente. E Morandi?
-Morandi è un uomo perbene, sa dare un contributo discreto ed elegante, e poi sa ancora cantare. È un sagittario come me, portatore sano di pace.
-Cioè? Cosa vuol dire "portatore sano si pace"?
-Vuol dire che anche quando abbiamo la guerra dentro, proviamo ad apparire sereni, ma a volte è dura.
-E le conduttrici?
-Le conduttrici sono carine, vestono abiti eleganti, anche se a volte non mi piacciono, sorridono e si fanno guardare, come si è sempre fatto a Sanremo. Questa storia dei sermoni, però, ha un po' stancato. Ti devono raccontare la solita storiella dei buoni sentimenti, la condanna del razzismo, dell'omofobia, del sessismo, delle discriminazioni, concetti sacrosanti, per carità, ma lo fanno sempre nel modo sbagliato: discriminando e mentendo. Non si sono accorti che il pubblico è cresciuto.
Le parole banali, in raccontini zeppi di retorica, non servono più, annoiano maledettamente, ma soprattutto non convincono nessuno. Le persone non cambiano idea dopo le lezioncine elargite dal palco dell'Ariston, neanche le ascoltano più. 
-Però, quanto è stata brava la Francini!
-Sì, brava, ma ha commosso solo chi già la pensava come lei.
-Può darsi. Effettivamente non credo che tutti abbiano capito.
Poi sorride Luca, mentre avvolge i miei capelli sulla spazzola, oramai mancano pochi minuti al termine della piega e deve porre la domanda più seria, quella fondamentale.
-E le canzoni?
-Ah, già, le canzoni. Non amo nessuna particolarmente, molte sono orecchiabili e ci soprenderemo a cantarle ovunque e per tanti mesi.
"Supereroi" del Povia 2.0 è carina, ma è capitata nel festival sbagliato, era da Zecchino d'oro.
Coma Cose restano insieme per non dirsi addio, rimedieranno alla crisi di coppia con un matrimonio, poi alla crisi matrimoniale con un figlio, poi forse riusciranno a maledirsi.
L'amore tra le palazzine a fuoco commuove, ma Tananai produce in me effetti molto più devastanti.
"Ma io lavoro per non stare con te"  è la cruda verità presente in tutte le canzoni degli adorabili Colapesce e Dimartino.
Ecco, a me piace solo la verità, quella della spontaneità.
In un festival in cui c'è tutta l'ipocrisia italiana, Gianluca Grignani è il vero eroe.
Canta un testo che è quasi una preghiera per una redenzione, ma non è molto orecchiabile e lui non canta più bene, ma la musica la conosce, lui è rock.
Sanremo lo vincerà Mengoni, bello ed educato, ma per me lo ha vinto Gianluca, l'artefice dell'unico gesto veramente trasgressivo di Sanremo: mostrare la scritta NO WAR sulla sua camicia bianca. La guerra, come lui, come tanti italiani, io non la voglio.
Sai cos'è, Luca, il cattivo gusto estetico, dai vestiti brutti ai tatuaggi infiniti, ai piercing sui volti diventati come puntaspilli, e la confusione sessuale esibita come emancipazione, non sono altro che una perfetta omologazione al pensiero fluido dominante, non c'è trasgressione in questa bruttezza spacciata per libertà. Ciascuno ha il diritto di scegliere di essere come preferisce, proprio perché la bellezza è nella diversità, non nella protesta preconfezionata, non nella volgarità degli eccessi. A me piace la fragilità potente di Grignani, l'autenticità.
-Allora, Mariavittoria, ti è piaciuto?
-"Il bene nel male" c'è in Madame, come nel Festival, come in Italia. Io mi sono goduta delle ore di mammitudine tra le mie figlie, sul divano, come non accadeva da tempo, tra tisane, plaid, risate e qualche scontro sull'idea di libertà, ma sono stata contenta, anche se dentro ho la guerra.
-No, veramente io mi riferivo al mio lavoro, ti piace come stai?
-Sì Luca, mi piace, sono pronta per l'ultima serata del festival, per i commenti con le mie figlie e con gli amici, con chi ho accanto, con alcuni su WhatsApp, con altri su Facebook, con chiunque si voglia divertire.
Questa è l'Italia, non sono solo canzonette.
Ah, dimenticavo, ho vinto il Fantasanremo nel gruppo di famiglia, prima su dieci, duecentesima in quello mondiale, perché in squadra avevo entrambi i vincitori, Mengoni e Grignani, e per altri motivi che ignoro. Insomma, nell'epoca dell'autocelebrazione, posso dire di aver vinto qualcosa anche io.




venerdì 23 dicembre 2022

A NATALE VUOI

A Natale si dice talmente tanto, si mangia tanto, si spende tanto, si piange e si ride tanto, si sta con tante persone, si fa tanto, ma tutto questo tanto non è mai abbastanza.

Al Natale nessuno resta indifferente, non ce n'è uno che viva al ritmo giusto, col sorriso giusto, con i pasti giusti e con i soldi giusti.
O si fa tanto o, per reazione, meno di niente. Chi ama le tradizioni e le rispetta, ad ogni costo, chi le combatte e le evita, con grande fatica. Alla fine conviene assecondare le tradizioni, perché è più semplice e perché combatterle fa sentire ancora più tristi e soli.
Le tradizioni celebrano le assenze, donano quella malinconia che in fondo ci piace, ma più di tutto ci ricordano chi siamo.
Natale è un appuntamento con la malinconia, sì, con la solitudine, con le richieste disattese, con le delusioni, ma è anche e soprattutto un'occasione per cacciare fuori quello che non ci piace.
Natale è un pretesto, lo si aspetta tutto l'anno, per odiarlo o per amarlo.
Non ci sono rimedi e neanche quest'anno proverò a cercarli, mi abbandonerò in questo mare in tempesta, assieme a chi aspetta una telefonata, che forse non arriverà, assieme a chi, mentre apparecchia, ricorda chi non c'è più, a chi manda messaggi di nascosto, dall'angolo di una casa in festa, assieme a chi è solo. Facciamo il possibile per accontentare chi amiamo, figli, genitori, mariti, mogli, amanti, e a volte ci accorgiamo che quel tutto non è abbastanza.
No, non ho soluzioni, so che ci cascherò anche stavolta, avrò gli occhi umidi, mentre farò mille foto, tra una pizza di scarole ed uno spaghetto a vongole, tra un brindisi e un bacio, a volte penserò a chi è solo e a chi manca.
Natale siamo noi, che facciamo finta di capire, di imparare e non sappiamo perdonare, mentre non ci accorgiamo che abbiamo già quello che cerchiamo: l'amore che cresce nel silenzio, che brucia nelle attese, l'amore che già c'è.

Buon Natale