venerdì 23 dicembre 2022

A NATALE VUOI

A Natale si dice talmente tanto, si mangia tanto, si spende tanto, si piange e si ride tanto, si sta con tante persone, si fa tanto, ma tutto questo tanto non è mai abbastanza.

Al Natale nessuno resta indifferente, non ce n'è uno che viva al ritmo giusto, col sorriso giusto, con i pasti giusti e con i soldi giusti.
O si fa tanto o, per reazione, meno di niente. Chi ama le tradizioni e le rispetta, ad ogni costo, chi le combatte e le evita, con grande fatica. Alla fine conviene assecondare le tradizioni, perché è più semplice e perché combatterle fa sentire ancora più tristi e soli.
Le tradizioni celebrano le assenze, donano quella malinconia che in fondo ci piace, ma più di tutto ci ricordano chi siamo.
Natale è un appuntamento con la malinconia, sì, con la solitudine, con le richieste disattese, con le delusioni, ma è anche e soprattutto un'occasione per cacciare fuori quello che non ci piace.
Natale è un pretesto, lo si aspetta tutto l'anno, per odiarlo o per amarlo.
Non ci sono rimedi e neanche quest'anno proverò a cercarli, mi abbandonerò in questo mare in tempesta, assieme a chi aspetta una telefonata, che forse non arriverà, assieme a chi, mentre apparecchia, ricorda chi non c'è più, a chi manda messaggi di nascosto, dall'angolo di una casa in festa, assieme a chi è solo. Facciamo il possibile per accontentare chi amiamo, figli, genitori, mariti, mogli, amanti, e a volte ci accorgiamo che quel tutto non è abbastanza.
No, non ho soluzioni, so che ci cascherò anche stavolta, avrò gli occhi umidi, mentre farò mille foto, tra una pizza di scarole ed uno spaghetto a vongole, tra un brindisi e un bacio, a volte penserò a chi è solo e a chi manca.
Natale siamo noi, che facciamo finta di capire, di imparare e non sappiamo perdonare, mentre non ci accorgiamo che abbiamo già quello che cerchiamo: l'amore che cresce nel silenzio, che brucia nelle attese, l'amore che già c'è.

Buon Natale 




giovedì 1 settembre 2022

Racconti refrigeranti 8ª scena

"Caro Lorenzo,

è arrivato il momento di tirare fuori questo macigno che da tre anni non mi fa più dormire. Il ventisette agosto del 2019 non venni all'appuntamento, è vero, ma tu neanche mi scrivesti, non mi hai mai  cercata.
Quel giorno dovemmo partire, rientrare d'urgenza in città, la madre di Giorgio non stava bene ed io non sapevo come avvertirti; mio marito mi teneva la mano ed io non me la sentivo di lasciarglela per nascondermi ed inviarti un messaggio.
Ma la passione e l'amore fanno essere folli e incoscienti, e anche tanto egoisti, e ad un certo punto, in viaggio, quando già eravamo sull'aliscafo, ho lasciato quella mano e sono scappata in bagno, ma quando ho preso il cellulare dalla borsa, mi sono accorta che si era spento, senza più carica. Ho raggiunto Giorgio e l'ho stretto forte a me, lui credeva fosse per proteggerlo, ma quel gesto era la mia richiesta di aiuto, l'inizio della mia rassegnazione, stavo tornando a casa e solo lui avrebbe potuto aiutarmi a dimenticarti.
Se tutto era contro, voleva dire che dovevo restare ferma e accogliere il mio destino, senza forzare gli eventi.
Non mi interessano le belle storie dei libri, le teorie sull'amore che vince su tutto, o forse ci credevo pure troppo, tanto da lasciar andare, - se è amore vero è reciproco e vincerà, ma ci pensasse lui, l'amore, io non voglio lanciarmi in un'impresa folle -.
Stavo già facendo di tutto per avere un figlio e non ci riuscivo, perché forse la mia storia era scritta diversamente ed era arrivato il momento di fermarsi a riflettere.
Ci sono periodi della vita in cui riusciamo a realizzare ogni obiettivo, riusciamo a raggiungere traguardi importanti, con l'impegno e la forza di volontà, arriviamo ovunque e ci illudiamo che sia solo per merito nostro. Questo ci aiuta nei momenti di sconforto: l'elenco dei nostri successi.
Poi impariamo a capire che ogni volta che abbiamo gioito, lo abbiamo fatto a prescindere dal traguardo, perché abbiamo deciso di guardare dietro, accanto, perché ci siamo accontentati.
Potevo quindi accontentarmi anche io di un marito bello e innamorato, di un lavoro e di una casa in città, non erano cose da poco, così ho provato a mettermi l'anima in pace, come si usa dire, ma la pace era durata solo tre settimane.
Il 17 settembre, con un ritardo di soli due giorni, chiusa nel bagno di casa, facevo il test della vita e scoprivo, ancora una volta, che la felicità è solo un'illusione.
Giorgio aveva cominciato a chiamarmi in lacrime, la madre era morta. Nello stesso istante in cui scoprivo di essere viva, mio marito perdeva le sue radici.
Le abbiamo dato il nome della nonna, Laura, ma è stato solo un inganno."

Enzo adesso è lì, davanti a Teresa, con la lettera tra le mani, entrambi hanno letto le confessioni dell'altro, entrambi adesso sanno: è solo nella reciprocità l'amore vero.

Fuori è pioggia, lampi, tuoni, acqua che pulisce e nutre la terra, dentro casa è fuoco che brucia la menzogna, le attese e gli umori. Nei corpi l'unica verità. 



venerdì 26 agosto 2022

Racconti refrigeranti 7ª scena

Ci sono sentimenti che vanno avanti da soli, anche quando provi ad ignorarli, anche quando fai di tutto per concentrarti su altro, ci sono. Li trovi una sera sotto il cuscino, mentre rovisti tra gli scontrini piegati nel portafogli, quando infili le mani fredde nelle tasche del cappotto preferito e il vento ti indurisce il viso, e ogni volta che li riscopri fanno male.


Prima di andare da Teresa, Enzo aveva deciso di scriverle una lettera, per provare a calmare quella eccessiva eccitazione, per ricordare tutte quelle volte in cui il sentimento per lei gli aveva fatto male, per rallentare i pensieri.

"Cara Teresa, dopo il tuo mancato appuntamento sono stato male, ho pianto, sì, non me ne vergogno, ho pianto davvero. Il fatto che tu non fossi venuta dopo quelle meravigliose ore trascorse insieme mi ha ferito. Ero talmente addolorato che il respiro si era fatto pesante e mi era venuto da vomitare. Mi sono sentito un idiota, un uomo ridicolo. Avevo creduto in un miracolo, io che non riuscivo più ad innamorarmi, avevo trovato nuova energia, nuovo piacere.

Quando ci siamo incontrati, quel ventisei agosto di tre anni fa, mi è sembrato che quello fosse l’epilogo, la fine di un film, che da lì in poi avremmo vissuto insieme, come del resto sognavo da quando eri arrivata sull’isola tre settimane prima. Dal momento in cui i tuoi occhi si sono accorti dei miei, dal primo incontro di pensieri, c’era stato il desiderio di te. Ci eravamo scambiati nuove curve sul viso e altri respiri, prima di toccarci, ci eravamo già parlati tante volte prima di quel giorno a casa mia, e lo avevamo fatto lasciandoci guidare dall’eros. Avevo l’impressione che anche tu mi volessi come ti volevo io, perché solo nella reciprocità prende forma l'amore vero. E la conferma era arrivata quell’ultimo lunedì di agosto.

Cara Teresa, Teresa mia, ho provato a non pensarti, ad amare altre donne, ma dopo un anno ho smesso, mi sono rassegnato, ho pensato che se era tutto vero, se davvero era tutto reciproco, allora stavi provando lo stesso tormento che provavo anche io e l’incastro sarebbe tornato perfetto. E adesso vengo da te, te lo dico che ti amo, te lo dico che voglio stare con te, e con quella piccola miniatura di te. Adesso vengo. E se non mi vuoi, vuol dire che non sei tu, che mi sono sbagliato, che nulla è vero.”

Quel pomeriggio al bar del porto, mentre Enzo andava verso casa di Teresa, c'era una coppia di anziani che discuteva, lei era su una sedia a rotelle, aveva un rossetto fucsia ed un vestito blu, lui le era seduto di fronte, occhiali da sole ed una camicia azzurra leggermente sbottonata; ogni tanto a fine agosto, si vedevano sull'isola, erano sempre insieme, sempre a parlare, a stuzzicarsi, a rinfacciarsi vecchie abitudini, nella consapevole dipendenza dall'altro. Quel pomeriggio, mentre Enzo passava avanti al bar, con la lettera tra le mani, e lo sguardo lontano, l'uomo anziano era sbiancato, lei aveva lasciato cadere la tazzina di caffè che aveva nella mano destra, il braccio penzoloni e la testa piegata sul petto. Un rivolo di caffè sul rossetto, un fermo immagine sullo sfondo, mentre la vita scorre nella sovrapposizione di nuove scene.








sabato 20 agosto 2022

Racconti refrigeranti 6ª scena

Filippo era rimasto vedovo a quarant'anni e non si era più risposato, almeno così aveva raccontato una volta. Aveva cambiato abitudini, amici e lavoro, e da diciotto anni si era trasferito sull'isola, dove nessuno avrebbe potuto contestargli la sua verità.
Si era messo a coltivare un piccolo orticello e scriveva poesie e racconti a richiesta, come un moderno Cirano, ma più bello e meno generoso, poiché ogni sua parola aveva un costo.
A volte la vita fa tanto male, strappa legami e progetti, allontana i corpi in modo definitivo, lascia soli con le parole non dette, le scene immaginate e irrealizzate; gli anni passano e non ci si sente compresi e amati; si inizia a credere che non tornerà più il tempo dell'amore e che forse è meglio non rischiare, chiudersi e non farsi trovare. Sono tante le anime in pena, che spesso si nascondono, dietro un muro o dietro una maschera, che importa, l'importante è scappare dalla realtà. 
Enzo era l'unico amico in cui Filippo credeva, che riteneva sincero, un solitario come lui. Una volta gli aveva raccontato della moglie, ne parlava al presente, come di una persona viva, ma Enzo non aveva indagato e Filippo aveva apprezzato quel silenzio discreto. Filippo dispensava consigli e poesie a chiunque lo chiedesse, ma lo faceva per soldi, come una cartomante che legge il futuro, vendeva emozioni e illusioni.
- Perché non mi scrivi una poesia sulla disperazione?
Gli aveva chiesto Enzo tre anni prima, dopo aver atteso invano Teresa.
- Perché sono disperato anche io, amico mio, e se iniziassi a scrivere del dolore che ho dentro, diventerei un vecchio brontolone.
- Allora beviamo, così ti chiameranno il vecchio ubriacone.
- Per carità, ci manca solo diventare un Bukowski italiano.

Aver rivisto Teresa, dopo tre lunghi banalissimi anni, aveva convinto Enzo che tutto quello che in quel tempo era accaduto non avesse senso: non aveva senso il suo lavoro, non avevano senso le sue avventure, non avevano senso i libri di filosofia ed i romanzi americani consumati la domenica mattina a letto, non aveva senso tutto il tempo infilato tra la scena dei saluti a casa sua il ventisei agosto del 2019 e quella del ritorno di Teresa al bar dell'isola il tre agosto del 2022. Senza Teresa la vita era solo un lavoro mal pagato.
- Eccola!
È il 21 agosto e Filippo gli sta offrendo un po' di compassione, gratis.
- È quello che penso?
Gli chiede Enzo prendendo il foglio che l'amico gli sta porgendo.
- È per te, ma anche per me.

Enzo abbassa lo sguardo e legge:

Ho pianto disperato tra i predatori
per uno strappo violento
ho colto fiori, fragole e pomodori
per non restare nel momento
per tornare bruco senza ali
ho piegato la schiena
ho tradito gli ideali
in una notte di luna piena
ho pianto con la bocca tesa
nella finzione che inganna l'attesa.

- Grazie

Filippo gli stringe il braccio con la mano e con gli occhi lucidi gli sussurra;

- Vai da Teresa! Vai! Adesso.

Non esistono verità che il tempo non possa cambiare, e neanche dolori che possa cancellare. Se esiste l'altra metà del cielo, è quella che vede ciò che di noi non abbiamo mostrato, è un'altra opportunità.


 

lunedì 15 agosto 2022

Racconti refrigeranti 5ª scena

Certi desideri ci mettono un po' ad essere esauditi, a volte impiegano tanto di quel tempo da non essere più desiderati. Come se il tempo fosse una prova, un test per misurare il valore di un'attesa.
Si desidera un incontro, un figlio, un lavoro, un viaggio, un ritorno, o solo una guarigione, da una malattia o da un dolore, che sia la fine di un tormento.
Teresa non aveva creduto alle parole di Enzo tre anni prima, non aveva ritenuto così forte, così vero quel sentimento, tanto da farle decidere di lasciare il marito, aveva provato a portare avanti il suo progetto familiare: fare figli e chiudersi in una gabbia di protezione emotiva. Aveva provato a classificare quell'amplesso di fine agosto, a casa di Enzo, come una mera reazione chimica, uno sbalzo ormonale: le era tornato il ciclo pochi giorni prima ed erano oramai due anni che provava a rimanere incinta. Si era incazzata col destino, con sé e con il marito, Giorgio, così bello e così innocente. La sera del ventisei agosto di tre anni prima, era uscita a smaltire la rabbia camminando in spiaggia, da sola, aveva percorso poche centinaia di metri e poi si era seduta sulla sabbia, ad imprecare contro il cielo e a piangere. Quando il pomeriggio dopo era andata al bar, aveva incontrato Enzo, con il quale fino ad allora si erano scambiati solo sguardi fugaci, lui le aveva offerto un caffè freddo e poi avevano cominciato a parlare di libri, di vino e di calcio. Avevano parlato tanto e camminando erano arrivati a casa di Enzo. Appena si erano chiusi la porta alle spalle avevano preso a baciarsi ad abbracciarsi, a seguire le linee delle braccia, della schiena, poi le gambe, era stato tutto così naturale, così intenso, un incastro perfetto; salive e sudore si erano mischiate col gusto del caffè e della delusione. Avevano assecondato i corpi, senza paura, con la stessa dolce follia.
Dopo quell'incontro si erano salutati dandosi appuntamento al bar per il giorno dopo, alla stessa ora, ma Teresa, quel pomeriggio stesso, mentre Enzo riempiva l'attesa provando a leggere Le lettere da Capri, seduto sul muretto di fronte al bar, partiva per il rientro in città.
Enzo non le aveva mai scritto, detestava WhatsApp e non voleva chiamarla, del resto era stata lei a non presentarsi, avrebbe dovuto scrivere lei. Teresa, però, non gli scrisse, gli mandò solo gli auguri di buon anno, nella malinconia del primo gennaio.
Il tempo misura il valore delle parole, dei desideri, ma i corpi se ne fregano del tempo, per i corpi conta la reciprocità. Quello che si sente insieme, quello che si riconosce nello stesso momento, nei baci, nel leggero tocco di un dito su una mano o anche solo nell'insistenza di uno sguardo che infuoca.



mercoledì 10 agosto 2022

Racconti refrigeranti 4ª scena

Continua dal racconto precedente...


- Sono tre anni che ti aspetto, Teresa, tre lunghissimi anni, e adesso quanto tempo ti occorrerà per spiegarmi?
- Tanto o niente, cosa importa, però adesso non posso trattenermi.
- Ci vediamo tra altri tre anni, vero Teresa? Questa bellissima bambina è tua figia?
- Sì, Laura è mia figlia. Ti chiamo io. Adesso devo andare.
Era durato pochi minuti quell'incontro tanto atteso, tanto immaginato, pochi deludenti minuti.
Adesso aveva anche una bambina, non avrebbe mai lasciato il marito. Forse era arrivato il momento dell'addio definitivo.
Confidiamo nella fortuna, confidiamo negli eventi, nel destino, quando siamo esausti, quando non sappiamo più aspettare, quando siamo stanchi di fare, quando non vogliamo più tentare, stanchi di forzare il caso e rimanere delusi. Confidiamo nel cielo, nel mistero, in tutto ciò che non conosciamo, confidiamo nell'aiuto divino, perché qualcosa arrivi.
È il momento in cui inizia la protesta silenziosa, la protesta di chi ha smesso di seminare, chi ha sopportato le piogge perché credeva nel raccolto, che ancora non è arrivato. E allora, senza forze, si arrende, si ferma: che sia tutto il resto a muoversi, che sia il cielo a decidere quando mandare una stella, perché è sicuro che prima o poi arriva quello sguardo che solleva il cuore, che giustifica ogni dolore, che dà un senso a tutto quello che è stato.
La sera del dieci agosto al bar del porto si organizzano buffet speciali e si alza il volume della radio; niente playlist, solo radio, tutto deve essere lasciato al caso, anche la colonna sonora della notte di San Lorenzo.
- Auguri
- Zitto, che qui nessuno sa che mi chiamo Lorenzo, lo sapete solo tu e mia madre.
- Vabbè, ma tuo nonno non c'è più, se adesso si scopre che ti hanno chiamato Lorenzo e non Vincenzo come lui, non se ne frega nessuno.
- Mia madre sì, morirebbe per la vergogna, per aver ingannato il nonno. Era cominciato per scherzo: Lorenzo, ma lo chiameremo Enzo come Vincenzo, così il nonno è contento - aveva detto a mio padre quando nacqui. E alla fine sono diventato Enzo per tutti e qui nessuno se lo scorda il cinque aprile di farmi gli auguri, quindi io mi chiamo Vincenzo. Tanto si vede la fortuna che mi ha portato avere le iniziali uguali per il nome ed il cognome, Lorenzo Lotteni.
- Ehhh, adesso non dire che non sei fortunato, stasera non devi dirlo, se no la stella ti cade in testa.
- Hai ragione tu, Giuseppino mio, a te è successo, vero?
- Ma va fanculo!
E ridono.
Alle undici di sera sono tutti lì, seduti fuori al bar, ai tavolini, o appoggiati al muretto:
c'è Rosa, con i suoi lunghi capelli neri, sensualmente sciolti; c'è Pino, seduto accanto alla moglie, con il braccio steso sullo schienale della sedia, dietro le sue spalle, a definire i confini, a creare casa anche lì, i bambini sono rimasti con la nonna; c'è Teresa, sola con la piccola Laura; c'è Filippo col suo cappello ed un foulard tra le mani; ci sono coppie di fidanzati e gruppi di ragazzi rumorosi; c'è anche don Antonio, il parroco.
Enzo vorrebbe portare la sua sedia accanto a quella di Teresa, ma prima decide di munirsi di birra, per tutti e due.
Mentre esce a testa bassa, con le due bottiglie di Ichnusa appese alle dita, si scontra con una donna con i capelli rossi arruffati ed un lungo vestito a fiori viola e verde.
- Attenta! Piano, pia... 
- Non ti arrabbiare, non ne vale la pena. Piuttosto brindiamo all'estate, L O R E N Z O.
- Gina!
Un tuono era arrivato forte dopo un lampo tagliente.
- Vieni da me a bere questa birra, o l'hai promessa a qualcuno? Vieni, dai, ho fatto la marmellata fortunella.
A volte le stelle cadenti hanno colori e voci strane, si presentano un po' distratte, non promettono niente, non realizzano desideri, ma ricordano che gli occhi al cielo si possono alzare anche per ringraziare.





venerdì 5 agosto 2022

Racconti refrigeranti 3ª scena

Le otto e cinque, sul display del cellulare c'è scritto 08:05, ancora le otto, sono già due ore che Enzo è sveglio, e non deve lavorare, è domenica e potrebbe riposare, ma non è sereno, qualcosa lo agita, il pensiero di un incontro che aveva atteso per tanto, troppo tempo. Il braccio si piega e si tende verso il comodino, le 8:18; si gira nel letto, riaccende il cellulare, scorre la home di Facebook, guarda WhatsApp, la notifica di un messaggio del gruppo "Quelli che corrono la domenica", 7 partecipanti, ma a correre oramai ci vanno solo due; le 8:35, meglio alzarsi.

Viviamo sempre male le attese, pur sapendo che la vita è tutta lì, nel tempo che precede, che conduce. Il momento dell'incontro è un punto di arrivo, è la fine del sogno, delle paure. Scene desiderate, forme di corpi conosciuti, presentimenti di epiloghi temuti, nuove immagini di noi, ci tengono compagnia in un'estenuante staticità. Il tempo si ferma, mentre lo vorremmo consumare in fretta, si ferma nella ricerca del senso delle aspettative, di tutto. Talvolta per scaramanzia le immagini auspicate vengono scacciate, nella consapevolezza che non può realizzarsi un sogno nella maniera precisa in cui è stato sceneggiato, così si crea un'altra versione, più catastrofica, per essere certi che neanche quella si potrà verificare, anche se solo pensare ad un epilogo infelice potrebbe in qualche modo influenzare negativamente il destino. È vero che non si può programmare e prevedere ogni evento della vita, soprattutto se si tratta di emozioni, figurarsi se la scena prevede altri protagonisti, la regia è inevitabilmente la nostra, siamo gli artefici del nostro destino, si sa, ma solo sul lungo percorso, mentre le tappe hanno esiti imprevedibili e spesso ingannano.
Il solletico di una formica sul piede di Enzo lo riporta alla triste realtà: dal balcone della cucina, una lunga e fitta fila di formiche aveva raggiunto una briciola di biscotto davanti al frigo, doveva per forza smettere di pensare al futuro delle prossime ore e mettersi a risolvere una scocciatura del presente.
Quando Enzo esce dalla doccia, sono le 9:37, manca meno di un'ora all'appuntamento, deve fare in fretta, le formiche si sono rivelate ottime alleate.
Alle 10:30 Teresa sarebbe stata lì, al bar del porto, in una delle sue camicie bianche, quelle che usava sul costume, elegante come sempre, e lui non voleva essere da meno, prende dall'armadio una camicia bianca di lino e dei bermuda a righe bianche e beige, si passa le mani tra i capelli per sentire se sono asciutti e poi si siede in punta al letto.
- Che senso ha tutto questo? Dopo tre anni, che senso ha?-
Un messaggio di Pino lo fa alzare di scatto. "Dormi ancora? Domani ricordati che abbiamo il giardino del torinese, non lo dimenticare."
"OK"
"Stai dormendo, non esiste un torinese 😂"
"OK"
"😂😂😴😴"
Lo scambio di messaggi veloce, mentre si guarda un'ultima volta allo specchio.
Alle 10:30 ai tavolini del bar c'erano due coppie di mezza età, una signora anziana con un cagnolino e un uomo col cappello di paglia intento a leggere un quotidiano.
- Buongiorno Enzo, amico mio solitario.
- Ciao Filippo, stanotte ti ho pensato, eri proprio lì, come adesso, col tuo cappello di paglia e declamavi una delle tue poesie.
- Quale di quelle inutili parole raggruppate ti sono venute in mente?
- Niente è inutile di quello che hai scritto, forse per gli altri sì, ma per te è stato sicuramente utile.
Si strizzano gli occhi e si sorridono, poi Filippo si toglie il cappello e se lo porta in petto, Enzo segue il suo sguardo, alle sue spalle c'è Teresa, indossa una camicia bianca ed è bellissima.
Questa parte del sogno è identica, ma nella scena, dietro di lei, appesa con la manina alla camicia, non c'era una piccola bambina bionda.



domenica 31 luglio 2022

Racconti refrigeranti 2ª scena

Enzo e Pino lavoravano insieme, in modo da dividere la stanchezza e distrarsi dalla fatica; erano dipendenti comunali, giardinieri per la precisione, d'estate, tra un'aiuola ed una fioriera ai limiti delle strade, curavano i giardini privati delle case di vacanza. Insieme tagliavano prati e bouganville, siepi e alberi da frutta, reduci da un inverno di abbandono, insieme sudavano e insieme andavano al bar del porto, a bere una birra dopo il lavoro, prima di raggiungere ciascuno la propria casa.

Il lavoro del giardiniere è un lavoro di cura, di attenzione, eppure spesso, quelli che lo praticano hanno un aspetto grossolano e trasandato, appaiono più dei domatori che delle generose nutrici, né tanto meno ricordano Edward mani di forbice. Con il caldo la natura si rinvigorisce, spacca il terreno, l'asfalto e la schiena di chi la combatte, come in una sorta di competizione agonistica.
- Noi esseri umani ci indeboliamo e la natura si rinforza, ma poi - diceva Enzo, il più giovane dei due - non siamo natura anche noi? Non siamo anche noi esseri viventi che trovano energia dal sole? Allora perché soffriamo? Perché noi ci indeboliamo, non dovrebbe sanare tutte le nostre ferite il sole?
- Ma che ne so! Io mica sono filosofo come te, io sono solo un giardiniere, un umile padre di famiglia.
- Forse perché siamo umani - continuava Enzo, senza dar peso al sarcasmo di Pino - noi abbiamo un'anima che non asseconda il corpo, che non si riconosce quasi mai nella sua forma, le piante invece se ne fottono della forma, siamo sempre noi che vogliamo dargliene una, abbiamo proprio uno strano rapporto con il corpo. -
Intanto Pino annuiva mentre osservava quella ragazza con la coda di cavallo nera seduta sul muretto di fronte al bar, che scattava foto al cielo. Iniziavano quasi sempre così i loro primi momenti di libertà dopo il lavoro, seduti al tavolino, davanti alle birre, ancora vestiti da domatori, ma con la voglia di perdere ogni difesa.
Qualche volta, verso sera, si vedeva Enzo passeggiare verso il porto e poi fermarsi a leggere su una panchina, sempre solo, Pino, invece, non compariva mai dopo le otto, forse perché la moglie, come lui qualche volta aveva raccontato, voleva che la sera stesse a casa con sé e i figli.
L'altro giorno, mentre il filosofo e il padre di famiglia parlavano di politica, è entrata una donna bionda, con un carré corto, grandi occhiali da sole ed un vestito lungo marrone e turchese, che evidenziava l'abbronzatura dorata.
- Un caffè freddo, per piacere.
Enzo ha alzato la testa e si è messo a fissarla, aveva gli occhi lucidi, forse per la birra, ma le mani no, non era stato quel po' di alcol a farle tremare, le mani erano il corpo che lui avrebbe voluto domare, il corpo che vibrava al suono di una voce familiare, alla vicinanza di un altro corpo che un tempo era stato attaccato al suo, in un incastro perfetto.

(Continua...)



lunedì 25 luglio 2022

Racconti refrigeranti

Nei pomeriggi d'estate la vedevo passeggiare in bicicletta, con quel sorriso da suora: quelle labbra tese senza mostrare i denti, come se dischiuderle potesse lasciare trasparire la bellezza, l'effimero. Anche la postura era da suora, un po' rigida, per essere sobria e cauta, mai disinvolta. Elementi che, come ogni eccesso di pudore, lasciavano trasparire una leggera malizia e la rendevano intrigante.

Bruno invece lo incontravo spesso la sera, dopo cena, nelle passeggiate lungo il porto, teneva al guinzaglio il suo Augusto, un Labrador dal pelo chiaro e il passo pigro. Ogni volta che li vedevo non potevo fare a meno di osservare la somiglianza tra loro. No, l'umano di capelli non ne mostrava, portava sempre un berretto, ma lo sguardo buono e il passo pigro erano gli stessi.

Rosa portava i suoi capelli neri raccolti in una lunga coda di cavallo, in modo da rendere ben visibile il viso pulito, dai lineamenti decisi, sinceri. Anche la sua bici era semplice ed essenziale, di quelle tradizionali, un po' passate di moda, come poteva sembrare lei, del resto. Verso le sei di sera entrava nel bar del porto, dopo aver appoggiato la bici all'ingresso, ordinava un caffè ed un dolcetto alla cannella e andava a sedersi sul muretto di fronte. Prendeva appunti, parlava al telefono, scattava foto al cielo, a volte sembrava registrare la sua voce, e osservava i passanti con fare curioso.
Dopo circa un'ora, tornava in sella e andava via.

Bruno arrivava al bar verso le nove, dopo il tramonto, ordinava un caffè e due dolcetti alla cannella, uno per sé e l'altro per Augusto, consumava velocemente al bancone e andava via verso il porto per la passeggiata serale, che interrompeva ogni tanto solo per alzare la testa e fermarsi a contemplare il cielo.

Erano due clienti tra tanti, con i loro riti e le loro manie, ma c'era di magico che le loro coincidevano; oltre la consumazione, avevano in comune la mania di muovere le dita sul bancone come pianisti a cui hanno sottratto i tasti e prima di allontanarsi, alzavano il braccio per salutare, senza parlare.
Per mesi li avevo osservati e non avevo fatto altro che desiderare che si incontrassero, che uno dei due cambiasse l'ora del suo ingresso al bar, che si rompesse una ruota della bici, mi sembravano perfetti l'uno per l'altra, così simili, così solitari.
Poi l'altra mattina ho visto Rosa passare velocemente con la sua bici, inseguita da una macchia di pelo chiara, ed ho pensato che fosse l'ennesimo punto in comune: entrambi avevano un cane per amico. Mentre li guardavo allontanarsi ho sentito un profumo di cannella ed ho rivisto le dita ballerine sul bancone, la coda di cavallo così perfetta da sembrare finta, o capace di entrare in un berretto, il braccio che saluta, gli occhi buoni.
Per mesi avevo sperato in un loro incontro, perché sapevo che se si fossero incontrati non si sarebbero più separati, ma non potevo immaginare che già fossero inseparabili, poiché altro non erano che la stessa persona.

(Continua...)





martedì 12 luglio 2022

E VISSERO TOTTI FELICI E SCONTENTI

Che sia meglio restare o andar via, che sia più coraggioso sopportare il peso del ruolo familiare o rimettersi in gioco e concedersi un'altra opportunità.

Non c'è un'unica risposta, perché non c'è una condizione uguale per tutti.
Quando si hanno figli, è inutile dire bugie, la separazione non è quasi mai la scelta giusta; i figli desiderano che la famiglia resti intatta, unita, che vada avanti nel bene e nel male, che non si apra e resti chiusa a proteggerli, che sia il rifugio sicuro per sempre.
Se poi è dentro la famiglia che nasce il dolore, che si creano rancori e risentimenti, se è proprio nello stesso vaso che cresce e si nutre il verme della diffidenza e dell'ostilità, allora è meglio separare il terreno.

Ilary Blasi e Francesco Totti si sono lasciati, hanno fatto ciò che fa circa il 48% degli italiani, ma la notizia in alcuni lascia un po’ di amarezza, in chi riconosce una certa sacralità ai personaggi pubblici e li pone al di sopra delle regole e delle statistiche. Ci hanno cresciuti con le favole e nelle favole amiamo credere. Allora perché non ci impegniamo tutti per portare avanti la nostra favola? Perché non vogliamo affrontare la fatica di mandare avanti una famiglia accettando la stanchezza e le delusioni?

Perché scappiamo da un fallimento, anziché provare a comprenderne le cause ed imparare ad accettare i cambiamenti? Probabilmente perché più recentemente ci hanno raccontato la favola della bellezza della solitudine.

Chi si separa generalmente ritiene sia meglio lasciare andare, piuttosto che aggiustare, ha un’idea di coppia più romantica, più pura, e non accetta compromessi. Chi resta ha una maggiore propensione al sacrificio, o è più disincantato, o semplicemente ha trovato il socio giusto per l’impresa della vita. Un alleato con la stessa tenacia o la stessa pigrizia, che non ci pensa proprio ad una separazione perché sarebbe un nuovo inizio, un percorso duro e stancante, come un risveglio, un trasloco nel bel mezzo di una guerra.

Lasciando perdere i casi in cui la separazione è necessaria per la sicurezza fisica e l’integrità mentale delle persone, esistono comunque conflitti che logorano la coppia e che non possono essere sanati, ma solo eliminati con la rottura del vincolo matrimoniale.

Chi accetta passivamente questi conflitti, chi ignora la mancanza di stima, di rispetto, non ha, o perde definitivamente, la stima di sé, e dà un esempio pessimo ai propri figli che, un giorno non troppo lontano, potrebbero commettere gli stessi errori e provare risentimento verso i genitori. Quindi, cosa fare? Dove è il limite oltre il quale non tollerare? Forse dovrebbe bruciare la città, come cantava Massimo Ranieri, e osservare con chi, verso chi si corre.

Ci vuole coraggio ad andare, ma anche a restare, ci vuole un’idea diversa di matrimonio, che non ha niente a che vedere con l’amore, ma con il senso della condivisione, della collaborazione, del sacrificio del proprio interesse personale in virtù di un interesse comune prioritario. Se partiamo dall’idea di famiglia intesa come gruppo di individui che, nel rispetto reciproco, affronta insieme le difficoltà, i dolori, che accoglie e sopporta le assenze periodiche di ciascun membro, allora forse riusciamo a creare un’armonia che mantiene intatti i fili che legano la coppia, li rende elastici, e non li fa spezzare.  

Il punto è capire, in un’epoca in cui conta più l’idea che gli altri hanno di noi, che quel che realmente siamo, ci sentiamo più fieri di mostrare gli anniversari o le conquiste individuali? Ci inorgoglisce più un matrimonio longevo o l’autonomia e la responsabilità personale? Cosa è un matrimonio lungo, un alibi o una conquista?

Forse non sapremo rispondere mai a queste domande, forse qualcuno ha fatto una scelta di comodo, qualcun altro crede di essersi sacrificato per amore, ma alla fine sappiamo di poter essere felici solo nei pochi istanti in cui crediamo di aver fatto felice qualcuno che amiamo, restandogli accanto o lasciandolo andare.



mercoledì 6 luglio 2022

Il mito della villeggiatura

Il mese di luglio è sempre stato per me il mese dell'attesa, della noia. Da bambina, non facevo altro che seguire mia madre, la scuola era finita e a casa mia già cominciava la preparazione alla villeggiatura.

La mattina uscivamo sempre tardi, mia madre trascinava me e le mie sorelle per mercatini, in cerca di sandali e borse da mare, a volte entravamo nei negozi per trovare qualche abitino in saldo, un paio di camiciole (camicie a mezza manica) e dei bermuda per mio padre e tornavamo stanche e accaldate a casa per il pranzo. Il pomeriggio si andava un po' dalla nonna e si mangiava il gelato; negli ultimi anni, il nonno aveva comprato la gelatiera ed aveva imparato a farlo da solo, era diventato bravissimo.
Se si restava a casa, si guardava la tivvù, mentre mamma stirava, e sul mobile del soggiorno si cominciavano a formare le pile di biancheria da portare nella casa che avevamo fittato per il mese di agosto. Già allora il palinsesto televisivo estivo riproponeva programmi trasmessi in inverno, sceneggiati e film datati, e documentari sulle periferie; ricordo che mia madre aveva una passione per Jane Eyre e ogni volta che la RAI lo trasmetteva, lo guardava, e noi con lei. Insomma, il mese più lungo, caldo e noioso era senza dubbio il mese di luglio e nessuno faceva niente per evitare che fosse così, si accettava questa sofferenza come una preparazione al mese più libero e allegro dell'anno.
Non riuscivo a capire come i genitori della mia amica, entrambi impiegati in banca, potessero scegliere di utilizzare le ferie a luglio. Che bizzarri!
Intanto, c'era di bello che ad un certo punto arrivava il compleanno di mia sorella più grande e si organizzava una festa a casa con parenti e amici.
Dalle foto rimaste, si vedono facce stanche e un po' sudate, ma molto allegre, come se avessero aspettato per giorni quell'occasione, del resto, meglio sudare insieme che da soli.
Le feste a casa mia erano sempre affollate e con buffet ricchi e calorici. Alla fine, mio padre prendeva dal freezer le coviglie (che il correttore automatico non conosce e vuole per forza trasformare in caviglie) e noi bambini cominciavamo ad addormentarci sui letti delle uniche stanze rimaste vuote.
Quando arrivava il 31 luglio, mio padre sistemava i tubicini per l'irrigazione delle piante sul balcone, andava dai nonni a lasciare una copia delle chiavi di casa, sistemava un po' le sue carte da lavoro e si addormentava per ultimo. I vestiti per la mattina dopo erano già pronti, perché non doveva essere sprecato neanche un attimo del primo agosto, il giorno più atteso dell'anno!
Bisognava fare presto per trovarci tutti insieme, chi qualche minuto prima, chi dopo, davanti al traghetto per imbarcare l'auto o, se eravamo davvero fortunati, lungo l'assolata, evanescente ed interminabile Salerno-Reggio Calabria.
Quando vi assale la nostalgia per la villeggiatura, pensate ai traghetti e alla puzza di nafta, pensate ai fumi che uscivano dalle auto incastrate nelle autostrade a due corsie, pensate che a luglio si può andare in vacanza e lavorare ad agosto, con più tranquillità.
Non è la nostalgia della villeggiatura che ci fotte, non è l'abitudine a cancellare il brutto del passato, è non aver compreso il valore della noia.



giovedì 23 giugno 2022

IL POTERE LOGORA CHI NON CE L'HA

“Ciascuno è libero di cambiare idea, ma un esponente del Movimento 5 Stelle che abbandona il Movimento deve pagare un risarcimento al cittadino, deve rispondere del proprio tradimento, si deve dimettere e poi può ricandidarsi nuovamente. Questa è la differenza tra noi e i partiti tradizionali, prendessero esempio da noi.”

Potremmo partire da qui, da queste parole che Luigi Di Maio ha proferito circa cinque anni fa (chi vuole, può reperire facilmente il video in rete, basta cercare “i voltagabbana del Parlamento”), potremmo partire da qui, almeno noi che per un po’ ci abbiamo creduto, per chiedere il risarcimento.

Avrei voluto evitare di partecipare alla demonizzazione mediatica del cinico Giggino nazionale, avrei davvero voluto lasciarlo in pasto al sarcasmo ed alla soddisfazione di chi ne aveva sempre parlato male, chi lo aveva deriso per la sua inesperienza o, peggio ancora, chi lo aveva preso in giro per i suoi trascorsi da “bibbitaro” da stadio. Avrei voluto restare, come sempre, fuori dalla massa, ma ho un dovere verso chi mi legge e verso me stessa innanzitutto.

Qualche anno fa, alla vigilia delle politiche del 2018, mi esprimevo, proprio su questo blog, a favore dei pentastellati, sia perché conoscevo molti attivisti del Movimento, in cui riponevo grande stima e fiducia, sia perché credevo nella possibilità di un cambiamento politico epocale.

Ho dovuto rispondere a lungo alle accuse di ignoranza e stupidità mosse verso gli elettori del Movimento, ma ho sempre creduto, e lo spiegavo anche in un post pubblicato nel maggio del 2018, che molti di noi potessero ritenersi ingenui, sognatori, ma niente di peggio.

Nel corso di questi ultimi cinque anni abbiamo assistito ad una lenta eutanasia del Movimento, dalle svariate deroghe ai principi del regolamento interno, ai voti a favore dell’obbligo vaccinale, al silenzio sull’ILVA di Taranto, dal compromesso con la Lega al sodalizio con il PD.

Ad ogni promessa mancata cadeva un tassello che reggeva il castello di illusioni, iniziava a farsi spazio l’idea che forse un giustizialista è solo un imbroglione che non ce l’ha fatta. Quel grido “onestà” era solo la rabbia di chi serba rancore verso chi possiede qualcosa che si desidera, proprio come diceva Andreotti: il potere logora chi non ce l’ha.

Ritengo ancora valida l'idea del reddito di cittadinanza, magari con forme di controllo più efficaci, ma non posso fare a meno di ridere davanti all'affermazione "abbiamo abolito la povertà", non posso che dispiacermi per la deriva qualunquista di tanti elettori delusi.

Caro Luigi Di Maio, anzi, neanche caro, onorevole, che una volta riteneva offensivo, le volevo ricordare che grazie al desiderio di cambiare di dieci milioni di sognatori, lei ha imparato dove è il Venezuela, e a non confonderlo con il Cile, ha avuto un lavoro fisso a rendita indeterminata, ha viaggiato, ha imparato a sorridere mentre mentiva, ha ottenuto un po’ di quel potere che bramava.

Adesso però non si senta un genio della politica, perché lei si è semplicemente adeguato ad un malcostume italiano noto da decenni, è stato solo un bugiardo dei tanti, una vittima del karma, come tutti quelli che si ergono a giudici della morale. 
No, le monetine non le arriveranno, qualcuno dice che potrebbe raccoglierle.



sabato 18 giugno 2022

LA PARANZA DEI CANTANTI

Non dirgli mai che siamo stati a letto per un giorno interoooo...

Eh sì, l'ho cantata anche io ieri sera, mentre andava in onda su Raiuno la festa a Piazza del Plebiscito per i trent'anni di carriera di Gigi D'Alessio, a dire il vero ho cantato solo questo verso, perché non conosco altro della canzone, l'ho fatto pensando a quante volte queste parole sono state usate per sdrammatizzare situazioni sentimentali ambigue o per ironizzare su uno stile canoro dai testi scontati.
Ieri sera, assieme ad altri tre milioni e mezzo di italiani ho acceso il televisore e lasciato su Raiuno, nel frattempo ho fatto telefonate, letto riviste e riordinato la cucina. Non amo la musica di Gigi D'Alessio e neanche la tradizione a cui si ispira, ma ieri mi sono posta senza pregiudizi davanti ad uno spettacolo musicale nazional popolare, con l'idea di assistere ad una festa. E tale è stata l'esibizione di ieri, una festa per un cantante che, nonostante gli sforzi, è rimasto un neomelodico.
Gigi D'Alessio è più amato fuori Napoli che nella sua città stessa, perché restituisce l'immagine stereotipata e folkloristica di una città che in tanti raccontano, ma in pochi comprendono.
Una volta ho scritto che Napoli è quel che si è nel momento in cui la si descrive; esprimere la propria idea di Napoli, raccontare Napoli è raccontare se stessi. In questo la mia città è speciale, nell'offrire a ciascuno, con grande generosità, l'aspetto che più gli assomiglia, così all'eccentrico regala le urla dei quartieri popolari, allo snob la bellezza altezzosa di Posillipo, al borghese l'ordinarietà del Vomero, al malizioso la provocatoria esuberanza del lungomare.
Sul palco di ieri c'era una certa Napoli antica, una certa Napoli di quarant'anni fa, quella delle sceneggiate di Mario Merola, quella della mistificazione della furberia guappa e oleografica, una Napoli che, fortunatamente, si è ridimensionata.
Il pubblico di ieri sera (quello presente e quello da casa) era eterogeneo, ma probabilmente più evoluto e meno provinciale dello spettacolo offerto sul palco.
Io non ci sto a quest'ennesimo racconto superficiale e voyeristico della mia città.
La festa di ieri sera non era un evento da prima serata su Raiuno, non era da Piazza del Plebiscito, la si poteva svolgere in un teatro, come una serata di un neomelodico che piace ad un pubblico abbastanza vasto, ma non estesissimo e, soprattutto, la si poteva svolgere senza il supporto economico della Regione Campania.
La festa di ieri non mi ha infastidita, mi infastidisce chi vuole legare Napoli sempre agli stessi stereotipi, mi colpisce chi decide di investire tante risorse che sarebbe stato più opportuno destinare ad altre cause.
Napoli è anche questa e non va nascosto, ma, del resto, " 'a sape tutto 'o munno, ma nun sanno 'a verità".





giovedì 9 giugno 2022

SENSO DI COLPA E BLA BLA BLA

Oramai lo sappiamo bene, con la recente pandemia è cambiato per molti l’approccio alla malattia e, ahimè, alle relazioni sociali. La paura dell’altro in quanto corpo estraneo, potenziale vettore di malattie, ha accentuato la diffidenza verso il prossimo e l’egoismo, con una conseguente maggiore autocelebrazione ed attribuzione di tutte le colpe al soggetto in difficoltà. Chi si ammalava di covid, soprattutto nei primi mesi, era accusato di superficialità nell’uso dei dispositivi di protezione e veniva tenuto a debita distanza; per la prima volta un ammalato non destava tenerezza o compassione, ma rabbia e disapprovazione. Ancora adesso ci sono persone che guardano con timore e un po’ di intolleranza chi non usa la mascherina all’interno di un edificio, anche se è lecito respirare liberamente. Grazie al cielo, con il tempo è un po’ scemata l’abitudine ad accusare gli ammalati, ma non è andata via la convinzione che quando si riceve un danno, da malattia o da altro, la colpa sia nei comportamenti del danneggiato. È bastato poco per arrivare, o meglio, tornare ad accusare le vittime di stupro di colpa, solo perché magari indossavano abiti succinti. È di pochi giorni fa la notizia che, a Rimini, il sindaco ha emanato un provvedimento nel quale un abbigliamento succinto viene ritenuto metodo di “adescamento” e quindi vietato in virtù del fine principale, ovvero l’abolizione della prostituzione. Quindi, uno dei parametri utilizzati per individuare una prostituta sarà la dimensione dell’abito, per cui, in considerazione dell’abitudine delle ragazze di indossare abiti corti e scollati durante il periodo estivo, il sindaco Jamil Sadegholvaad si troverà ad applicare numerose sanzioni per tutte le potenziali prostitute che abitualmente frequentano Rimini nei mesi caldi.

È colpa nostra se ci ammaliamo, è colpa nostra se ci violentano, è colpa nostra se le temperature aumentano, se i ghiacciai si sciolgono, se il petrolio non basta, se il gas non basta, è colpa nostra di tutto.

Quindi i cattivoni, gli uomini ingrati, dovrebbero chiedere scusa e lasciare questa terra. Anzi, come si grida da qualche anno, per una stupida moda, bisogna invocare l’asteroide, così non bisogna neanche spostarsi, e si può restare comodamente seduti sulla riva del fiume inquinato.

Non ci bastavano i sensi di colpa con cui veniamo al mondo, perché abbiamo fatto soffrire la mamma, adesso dobbiamo ricordarci ogni giorno che siamo solo dei peccatori, colpevoli di vivere.

I giudici impietosi, quelli che si autoassolvono ed avallano la politica di uno stato etico, saranno sicuramente nati da un cesareo, probabilmente non usano mezzi inquinanti per gli spostamenti, si muovono a piedi o con la bici, si lavano i denti con i finocchi, usano l’acqua con cui si sono lavati, per pulire i piatti e poi per scaricare, o forse fanno i propri bisogni direttamente nella terra che coltivano; quelli che usano le candele e mangiano i prodotti del proprio orto non trattati, che a loro volta diventeranno concime.

Forse si salveranno, ma da cosa? Dal rimprovero di Greta ed il suo bla bla bla? Dalle sanzioni economiche, dal giudizio severo dell’opinione pubblica?

Sia chiaro, amo camminare e usare dove possibile i mezzi pubblici, faccio la raccolta differenziata da anni e provo a mangiare sano, ma sono una no-eco, non solo perché non sopporto la moda dell’ecologicamente corretto, ma soprattutto perché non farò da eco a tutte le trovate dei finti salvatori del pianeta.

Menomale che è arrivato il caricabatteria universale a dare un contributo alla pace.








martedì 24 maggio 2022

COSA SI MANGIA?

Ore 12:30, sono a casa in smartworking, whatsapp si illumina: Cosa si mangia?

Puntuale come la vittoria dell'Ucraina all'Eurovision, arriva la richiesta delle mie figlie. Da quando sono in smartworking, oramai più di due anni, sono tornate ad attendere i miei pranzi come una poppata, loro che hanno imparato presto a cucinare mentre ero in ufficio, adesso si sentono più figlie, più esigenti.

La domanda sarebbe anche confortante, se fosse esclusivamente un banale riconoscimento del ruolo di madre, ma è diventata un esame, un test sulle mie abilità da nutrizionista.

La risposta, quindi il pranzo, deve contenere necessariamente carboidrati e verdura, qualche volta legumi,  non deve contenere troppo olio, deve essere diversa dalle ultime nove risposte e deve soddisfare i gusti di entrambe.

Impresa ardua per una figlia dei figli della guerra, per giunta napoletani, che hanno conosciuto i sacrifici ed hanno poi creato famiglie durante il boom economico; una come me, cresciuta nel calore e nella condivisione dell’abbondanza a tavola, tra pasta con sughi ricchi di condimento, in cui spugnare chili di palatone cafone, gnocchi fatti in casa, lasagne, casatielli, braciole, cotolette e pure pesce e verdure, ma fritte.

Quando poi ho cominciato a cucinare, cercavo di essere sobria nella preparazione dei piatti quotidiani e sfogavo il mio estro nei dolci. Anche io ho provato a convertire al “sano” mia madre, imponendole menu a base di petto di pollo arrostito ed insalata, ma lei aveva la capacità di far passare per verdura la parmigiana di melanzane ed i peperoni al gratin, ed io la assecondavo con piacere.

L’idea che nella pasta con il cavolo non avrebbe potuto più mettere la scorza di parmigiano, nella pasta e fagioli la cotica, è stata difficile da fare accettare a mia madre, ma alla fine dal casatiello sono stati eliminati solo i cicoli, vabbè nel casatiello la sugna ci può stare, ci deve stare, ma i cicoli no, è troppo.

Insomma, un giorno preparo le orecchiette con i broccoletti, un altro la pasta con le zucchine, poi pasta con i friarielli, con i carciofi, con i peperoni, con i fagioli, la sera carne, pesce o uova con verdure, tutto questo perché possano mantenersi magre e belle ed il sabato sera mangiare panini multistrato con hamburger, formaggio, cipolla fritta, pancetta, lardo di colonnata, salsa e merengue.

Comprendo quest'attenzione che rivolgono all'alimentazione e mi fa sorridere, c’è solo una cosa che mi preoccupa, un’espressione che ho appena riportato: magra e bella, un binomio che per molti è un intercalare.

Si fa la lotta ad ogni tipo di discriminazione, anche a quelle inesistenti, e non si combatte lo stereotipo più stupido e dannoso, secondo il quale alla magrezza equivale la bellezza, soprattutto per una donna.

Non nego che un’alimentazione sana dia benefici, che ancor di più il movimento aiuti a rallentare l’ineluttabile processo di invecchiamento, sono convinta che sia importante seguire regole alimentari e che ci si debba curare; non voglio dire che non esista il bello e il brutto, esistono e come, ma sono concetti relativi, esiste sicuramente un troppo magro ed un troppo grasso, ma esclusivamente ai fini salutistici.

Mens sana in corpore sano, è vero, perché sano è l'armonioso equilibrio tra corpo e anima. La bellezza è una danza di linee e pensieri.

A che serve parlare di asterischi e schwa se la pancia, l’arco d’amore, è ritenuta un elemento antiestetico e discriminante?

Oggi ho deciso, a pranzo pasta e patate con la provola ed il basilico fresco del mio balcone, e nel pomeriggio, una bella camminata.



martedì 10 maggio 2022

301. IL CIELO IN UNA STANZA

Oggi il mio blog compie 9 anni, ne ho scritte di stronzate, eh? Lo so, pure il titolo di questo post può sembrare non avere attinenza, ma è casa mia e scrivo quello che voglio.

Che poi un senso ce l'ha.

Un blog è uno spazio social più riservato, non scorre in una home, lo devi cercare, devi andare ad aprire un link, per esplorare un piccolo mondo di idee e riflessioni.

Per me questo spazio, questa stanza disordinata, è stata una fucina di idee, ho imparato tanto scrivendo e confrontandomi, e in questo esercizio quasi decennale ho trovato rifugio, ogni volta che Facebook non mi bastava. Poi, non mi è bastato più neanche il blog, ed ho scritto “Condominio Arenella”, un romanzo che mi ha dato grandi soddisfazioni. Pochi mesi fa, la stessa casa editrice, la IOD, pubblicava una raccolta di miei frammenti poetici “Novantanove fiori selvatici”, accolto molto bene dalla critica, ma poco conosciuto al pubblico di lettori.

Sono contenta di queste due mie creature, alle quali in futuro si aggiungeranno altri progetti, sono contenta soprattutto di aver fatto compagnia a chi si sentiva solo. In un’epoca di distanze, imposte, volute e a volte combattute, un blog diventa un luogo di ritrovo, un baule di parole, di riflessioni politiche, di poesia e a volte di risate.

Faccio con il blog quello che qualcuno fa con le strade, percorro spazi nascosti, un po’ più riservati, per andare a conoscere la vera condivisione. Come quando cammini per i vicoli di Napoli e resti incantato davanti ai bassi, da cui escono profumi di detersivi e sughi, dove c’è quasi sempre una donna ai fornelli che gira mestoli e crea cerchi che legano e tengono unita la famiglia.

Continuerò a rimestare parole in questo pentolone, perché è il modo per me più semplice per riempire le distanze, per portare il cielo in una stanza.

Dal 10 maggio 2013 ad oggi il blog ha ottenuto 99.342 visualizzazioni per 300 post. Ringrazio i lettori fedeli e quelli occasionali, perché mi hanno seguita in un laboratorio di pensieri, dove le parole non erano sempre studiate a dovere, dove ha sempre prevalso l’istinto, la passione, la voglia di fare comunità.

Buona bloggata a tutti e, mi chiedevo, perché l'olio di semi costa minimo € 3,50 al litro?




domenica 20 marzo 2022

BUONI O CATTIVI

L'altro giorno Gramellini, l'uomo che diffonde banalità senza vergogna, l'uomo che chiacchiera attorno alle parole con buonismo e retorica, si è lanciato in un'acida critica al professore Orsini, talmente piena di livore che ha suscitato una reazione ufficiale di altri professori universitari (vivaddio). Sono sempre stata convinta che le persone che ci provocano fastidio, che fingiamo di disapprovare, siano spesso l'immagine di ciò che vorremmo essere.
Probabilmente Gramellini è invidioso della popolarità e della solidarietà da cui è circondato Orsini, perché in fondo il professore è timido come lui, non è telegenico come lui ed esprime concetti semplici come lui. Probabilmente per questo lo scrittore con la faccetta gonfia di bile si è schierato drasticamente contro il professore, oppure, come sempre, ha scelto di stare dalla parte dei "buoni guerrafondai".
Entrambi piacciono per gli stessi motivi: populismo e toni pacati, con la differenza che adesso chiunque scriva sui giornali debba necessariamente dichiararsi a favore della guerra. Perché adesso è questa la parte "giusta" da cui stare.
Prima i cattivi erano i no-vax, ora lo sono i pacifisti, sembra assurdo, ma è così, e per farli odiare si inventano che sono pro-Putin, anzi, fanno ancora meglio, per chi non si convince che essere no-war sia da irresponsabili, si inventano che allora il pacifista è pure no-vax, perché chi è contro la guerra non capisce niente.
Negli ultimi anni siamo costretti a scegliere tra due parti: quella riconosciuta "responsabile e buona" o quella definita "stupida e cattiva", facile, no? Senza più complessità, senza libertà di pensiero, senza contraddittorio reale, condannati dal mainstream e quindi dall'opinione pubblica.
Solo due alternative: pro o contro.
Ma davvero ci importa essere inseriti tra i buoni o i cattivi da politici e giornalisti dal pensiero unico di propaganda? Davvero siamo così bigotti? Davvero ci fa paura essere etichettati da persone che potrebbero essere zittite davanti alla conoscenza dei fatti?
La risposta è nella storia.
Il gioco dei buoni e i cattivi funziona sempre: chi volete Gesù o Barabba? La folla scelse Barabba, ma poi sappiamo come è andata a finire...



lunedì 14 marzo 2022

Generazione X, no grazie.

 <<Se dobbiamo pagare noi le sanzioni imposte alla Russia, perché si eviti un nostro coinvolgimento nella guerra, ben venga; se per salvare le vite umane dei miei cari e di tanti altri italiani devo essere più povera, accetto il prezzo.>>

L’ha detto questa mattina una mia amica durante una nostra conversazione telefonica, ed io annuivo, le dicevo <<Certo, chi non pagherebbe per salvaguardare anche una sola vita…>> e mentre lo dicevo mi sono fermata ed ho pensato alle parole che avevamo appena pronunciato, al loro suono, identico a quello utilizzato per accettare, giusto due anni fa, la reclusione e tutte le assurde imposizioni.

<<Ma cosa stiamo dicendo!>> Ad un certo punto mi sono trasformata nell’altra me stessa, quella più razionale e le ho detto <<stiamo giustificando per l’ennesima volta il nostro carnefice>>.

Ma cosa sta succedendo? Siamo davvero così manipolabili?

I ragazzi dicono che siamo dei boomer, noi della mezza età, ci chiamano così i nostri figli, nipoti, in modo improprio. Mi sono andata a documentare, boomer viene da boom, quelli nati durante il boom economico per intenderci; noi che parliamo e scriviamo tanto, noi che rappresentiamo forse la parte più attiva dell’opinione pubblica, noi nati tra il 1964 ed il 1979, siamo invece generazione X. La X sta ad indicare l’assenza di un’identità sociale, in pratica, siamo privi di una specifica visione del mondo e di una reale identità culturale e per questo finiamo per essere facilmente influenzabili.

E a pensarci è così, lo vediamo nell’attuale classe politica, inadeguata e debole, lo leggiamo sui social che traboccano di neneisti, perché non hanno argomenti sufficienti per rispondere ad eventuali critiche. Allora, nel timore del confronto, al quale noi della generazione X non siamo abituati, ci si dichiara né a favore né contro. Non è solo la mancata propensione al confronto a frenare molti nell’esporsi, è anche la linea assunta dai veri boomer, la generazione precedente che ci blocca e ci giudica. Sembra di dover sempre dimostrare di essere all'altezza, come con un genitore troppo severo e presuntuoso. I boomer sono molti di più, il boom economico ha visto anche un elevato aumento delle nascite e, al tempo stesso, un allungamento delle aspettative di vita, per questo ancora hanno un forte ascendente su di noi e se la maggior parte di loro si schiera in un senso, opporsi diventa quasi impossibile. In pratica, si è instaurato in Italia quello che si può definire un controllo sociale sull’etica e la morale. È come se i boomer avessero assoldato quelli della generazione X per portare avanti le loro teorie e controllare e giudicare, definendo stupidi ed ignoranti tutti quelli che si mostrano critici nei loro confronti.

Siamo di fronte ad un conflitto generazionale patologico, anzi, più che di conflitto, parlerei di subalternità, mi spiace dirlo, ma la mia è una generazione di eterni immaturi col complesso di Edipo.






mercoledì 9 marzo 2022

Il DPCM è l'oppio dei popoli

Il nove marzo è da vent’anni una data importante per me, per questioni personali, da due lo è per tutti gli Italiani.
“Le nostre abitudini vanno cambiate, vanno cambiate ora, dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell’Italia.” Così introduceva Giuseppe Conte il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che in seguito prenderemo a chiamare con una certa dimestichezza “DPCM”, la sera del 9 marzo del 2020.
Così cominciò il viaggio introspettivo degli Italiani. Con una frase che adesso è diventata quasi una bestemmia “Andrà tutto bene”, ma non sapevamo cosa e a chi.
Si sono prodotti romanzi, cortometraggi, foto e parole a iosa su questi due anni, io ho scritto tanto, ma soprattutto sui social, per combattere la solitudine. Ho provato a confrontarmi, a capire, ma anche a tranquillizzare me e chi mi leggeva. Avrei voluto che tutti fossero più presenti e che nessuno si sentisse solo. Ho scritto tanto ed ho sofferto tanto, ho perso l’attenzione e l’approvazione di qualcuno, ma ho guadagnato nuovi meravigliosi amici e rafforzato il legame con chi è rimasto.
Ripropongo qui i primi post di quel periodo, perché fa bene a me, e forse anche a qualcuno di voi.
 


9 marzo 2020


Restiamo a casa a coltivare il nostro giardino.


30 marzo 2020

Ho dovuto ricalcolare il tempo, piegarlo a nuovi riti;
agli spazi noti ho dato un'altra forma, un altro nome.
Il lavoro adesso ha l'odore della mia casa, i colori delle sue pareti.
Le stanze sono aule scolastiche silenziose.
Fuori è uno spreco di strade, di luci e vento.
Ogni cosa è raccolta qui, strappata alla comunità.
In una scatola di cemento che protegge i corpi e accentua le paure.
In questa solitudine che fa sentire meno soli.
 

3 aprile

Io non ci credo che la gente sarà migliore dopo questa quarantena, non ci credo proprio. Chi aveva bisogno di riscoprire il valore del tempo non lo farà di certo adesso, anzi, ne avrà talmente tanto di tempo da continuare a non comprenderlo; chi invece già lo sapeva, avrà sempre il timore di sprecarlo. La quarantena non è una vasca purificatrice, non è acqua benedetta, non è il purgatorio, la quarantena è un furto di abitudini, di false certezze, una svestizione che mette a nudo l'anima delle persone.
Io non ci credo che dopo la quarantena saremo migliori; saremo un po' più scoperti, più esposti, fino a che tornerà la pudicizia a rivestirci.


4 aprile 2020

Oggi è sabato, anche in quarantena è sabato: io non lavoro e non ci sono video lezioni. In realtà il collegamento per la grande è previsto, i professori al liceo hanno rispettato l'orario stabilito a inizio anno scolastico, hanno solo ridotto la durata delle lezioni, e siccome anche il sabato Bianca andava a scuola, oggi le tocca collegarsi, ma solo per un'ora. È sabato, il giorno in cui si mette ordine in casa, si fa la spesa per la domenica, si legge qualche pagina in più del libro che si ha sul comodino, e si comincia anche a cucinare per la domenica.
Perché deve essere così, perché continuo a curare me stessa, la mia famiglia, la mia casa, e a coltivare i tanti dubbi sulle certezze altrui, per non permettere a niente e a nessuno di cambiarmi.
Addì, 4 aprile 1984
 

6 aprile 2020

Ma poi dico io, non avete chiuso l'Ilva di Taranto con la scusa di salvare l'economia di diecimila famiglie, mentre la gente moriva di tumore, e poi all'improvviso un virus fa più paura del cancro, che in Italia ricordiamolo fa circa cinquecento morti al giorno, e bloccate un paese intero mettendo in ginocchio milioni di persone.
Ovviamente le attività degli impianti a ciclo produttivo continuo (tra cui quello di Taranto) non smettono di funzionare, ma un malato oncologico non fa più notizia.
Giusto così, perché ho il vizio di pensare...
Addì, 6 aprile 2020


7 aprile 2020 

Caro diario, 
oggi non mi va tanto di scrivere, sono un po' demoralizzata, mi sembra che le persone abbiano necessità di odiare sempre qualcuno, che abbiano bisogno di trovare un nemico da insultare per sentirsi migliori. Questa poteva essere l'opportunità per imparare a volersi bene, per costruire qualcosa di bello, invece in tanti trovano più facile dare la colpa agli altri delle loro frustrazioni. Più facile screditare il prossimo piuttosto che lavorare su se stessi.
L'ho già detto, questa quarantena ci ha svestiti, ha mostrato le nostre miserie.
Addì, 7 aprile 2020
 

8 aprile 2020

Ci hanno insegnato che bisogna vivere ogni minuto come se fosse l'ultimo e poi ci dicono di mettere in standby la vita perché questi potrebbero essere gli ultimi momenti. Sì, lo so, si vive anche a casa, anzi a casa si sta benissimo. Credo che molti stiano molto meglio a casa che fuori. Poi ci hanno detto che l'uomo ha distrutto troppo la natura, bisognava fermare questo processo, quindi adesso la terra respira meglio, i lupi scendono dai boschi, gli uccelli sono liberi di portare tutte le infezioni che possono e l'acqua del mare è limpida, ma si può guardare senza toccare. L'uomo, però, è un animale intelligente e sa bene che se non è nato in cattività, ci soffre ad essere recluso, sa che bisogna difendersi da una natura troppo aggressiva, arrivare a trovare un accordo di pacifica convivenza. Nel frattempo, ci tocca subire la rivincita degli altri animali (Orwell ci aveva visto lungo anche in questo), l'uomo in gabbia in un grande zoo e tutto il resto del mondo fuori.
Ergo, adesso ci spetta vitto e alloggio gratis, noi dovremo solo ricevere le visite delle altre specie e metterci in posa, le foto continueremo a scattarcele da soli.
Addì, 8 aprile 2020 


12 aprile 2020

Caro diario,
oggi è Pasqua, nonostante tutto. Ricevo messaggi sulla rinascita, sull'essere migliori e penso - sì, tutto molto bello, ma adesso? Adesso mi mancano le persone che amo, mi manca abbracciarle, baciarle, e non mi dicessero che si può essere vicini con il cuore, stronzate! Il corpo è la nostra storia, porta i segni dei dolori e delle rivincite, ci lancia segnali costantemente, e adesso ha bisogno di carezze. Il nostro corpo sa tutto, il nostro corpo è tutto.
Addì, 12 aprile 2020


Mi piace che finisca così questo elenco di post, con questa frase: il corpo è tutto.

E se il corpo dell'uomo viene chiuso in un recinto, se viene avvelenato, se viene giudicato, offeso, umiliato, non esiste libertà per lo spirito, è compromesso tutto.

DPCM dopo DPCM siamo diventati acronimi di vita.