venerdì 30 settembre 2016

229. TI AMERÒ PER SEMPRE, MA ANCHE NO.

Ho scelto di aprire un blog, poco più di tre anni fa, perché mi piace scrivere di me, delle mie idee, degli eventi strani della vita, che poi così strani non sono mai. Mi piace raccontare emozioni e confrontarmi, come faccio da sempre tra me e me, tra Maria e Vittoria, un nome quasi profetico, espressione di un eterno conflitto interiore, frutto della consapevolezza che non esista una reale dicotomia tra tra bene e male, tra conformismo e trasgressione.
E così, scrivo. Scrivo
 perché mi fa bene, aiuta a schiarirmi le idee e, come quando ci si racconta ad uno psicoterapeuta, mi aiuta a definire le mie priorità, quindi, a scegliere. E scelgo, come tutti, ogni giorno, ogni momento della vita, anche quando sembro subire le decisioni altrui.
Da quando ho aperto il blog, maggio 2013, ho ricevuto molti consensi, qualche critica e tante manifestazioni di stima e inaspettato affetto.
Ho raccolto qualche confessione che mi ha portato a stare dall'altra parte, quella di chi ascolta. E allora ho avuto la conferma che la condivisione, nella sua più tradizionale accezione, non esclusivamente virtuale, è la migliore cura al mal d'animo. Raccontare per infondere coraggio, per ricordare che non siamo soli, perché magari così impariamo a perdonarci.
Negli ultimi giorni ho ricevuto una confessione struggente, vera e passionale. La narratrice è una lettrice del blog che mi ha chiesto di pubblicare, necessariamente in forma anonima, la sua esperienza, ed io le ho promesso che l'avrei fatto. Per lei, per me e per chiunque abbia bisogno di sentirsi meno solo e di amarsi un po' di più
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Qual è il momento storico in cui, noi donne, abbiamo iniziato ad avere bisogno continuo di conferme? E di conferme da parte degli uomini? Mi raffronto continuamente con mia madre, una donna di ottant'anni, sposata da sempre con mio padre, madre di due figlie. La vedo una donna semplice, che non si è mai chiesta tante cose, che ha vissuto come le aveva insegnato mia nonna, con il solo esempio perché prima, non si parlava tanto. E come lei, tante altre donne della sua generazione, del suo mondo, della sua cultura sociale. Forse il momento storico a cui penso io, è coinciso con il cambiamento della posizione di donna. Non più solo figlia, non più solo moglie, non più solo madre. Non più regina di quattro rassicuranti, onorevoli, curate, mura domestiche. Forse è stato quando abbiamo deciso di uscire fuori, di cercarci, di trovarci, magari a scuola, all'università, in un ufficio, in uno studio, in un’autonomia economica, mentale e fisica, alla quale forse non eravamo ancora pronte. E che ancora non ci basta, per farci capire cosa siamo. Non ci basta sentire noi stesse parlare di argomenti importanti; non ci basta  guardare noi stesse mentre ci confrontiamo con gli uomini, sul lavoro, magari in settori che erano di loro esclusiva pertinenza. Non ci basta guardarci allo specchio e compiacerci, perché i nostri 50 anni non sono quelli delle nostre mamme, a volte poco attente alla loro cura perché prese dalla famiglia, o semplicemente perché assecondavano il trascorrere del tempo, lasciando vincere i segni che il tempo stesso lasciava su di loro. Deve essere per forza così. Non siamo ancora abbastanza consapevoli. Perché basta uno stronzo sul nostro cammino per destabilizzarci, per disorientarci, per farci perdere l’autostima e la dignità, dedicandoci devotamente a lui, come la più addomesticata delle geishe. Questa è la mia storia. Infanzia? Normale, semplice. Padre autoritario, madre ferma, decisa, con tante responsabilità. Una sorella. Quella che tutti vorrebbero, anche se non sempre. E poi i nonni, i cugini, gli zii. Una classica famiglia dei miei tempi. Ah, dimenticavo, tra pochi giorni compio 48 anni. Adolescenza? Normale. Problematica come per tutti. Tanti amici, la scuola, un fidanzatino per dieci anni. E poi il liceo, l’università e il lavoro a 25 anni. Storie? Qualcuna. Tutte belle, confuse, caotiche, devastanti e chiuse. Normale. E poi il matrimonio, a 28 anni. Voluto, deciso in poco tempo, contro tutto e tutti. E una figlia due anni dopo. Il mio matrimonio? Affrettato, troppo. Ha funzionato male da subito, almeno per me. Ci stavo stretta, mi sentivo a disagio, non era quello che avevo desiderato. Non volevo un matrimonio, volevo solo la libertà di uscire dalla casa di mio padre. E io, moderna, discretamente colta e con idee liberali, ho pensato che il matrimonio fosse la sola maniera che mi veniva concessa. L’unica che mi sono concessa. Alla faccia dell’emancipazione! Ma è durato quasi un ventennio. Tra bassi e medi, gli alti non si sono mai toccati, ma è durato. Lui è sempre stato paranoico, ossessivo, compulsivo. Io esistevo solo dal momento in cui lo avevo incontrato. Il mio passato era vergognoso, non doveva essere nominato, era geloso persino dei miei amici. Dimenticava che si era innamorato di me per quella che ero, cioè la somma e la sottrazione delle mie esperienze passate. Per tranquillizzarlo, avevo cancellato in un sol colpo, tutti i miei ricordi materiali, gettando nella spazzatura lettere, bigliettini, foto, cartoline, di 28 anni di vita. Che stupida! Da allora gli ho solo consentito di alzare il tiro con le sue pretese. Ma forse è stata colpa mia. Non gli ho mai dato la tranquillità necessaria per fidarsi di me. Oppure, forse, lui non si sarebbe fidato comunque. Avevo perso autostima e sicurezza in quel rapporto, soprattutto sulle mie capacità relazionali, e per lui avevo rinunciato a frequentare i miei amici del liceo, incrollabile sicurezza della mia adolescenza e oltre. Avevo accettato di frequentare i suoi amici della Napoli bene (che ipocrisia dietro questa definizione) con i quali avevo ben poco in comune. Ma soprattutto non avevo in comune con loro la mia unica passione: i libri, la lettura. Sono andata avanti tra momenti di insofferenza totale e momenti di tranquillità, vissuti insieme a Daniela, la mia unica figlia. Già, unica. Non doveva essere unica, perché ne ho sempre voluti, io, di figli. Ma la sua paranoia e gelosia assurda (periodicamente si intestardiva sul mio amante di turno), mi ha portato a rinunciare, dieci anni fa, alla mia seconda gravidanza. Avevo appena avuto un nuovo posto di lavoro, dopo un licenziamento per ridimensionamento, chiaramente a carico delle sole donne. Lavoravo per un’azienda di Bologna con una sede a Napoli. Avevamo cambiato per l’ennesima volta casa (quattro in diciott'anni di matrimonio) ed avevamo anche stretto di più con una coppia dello stesso gruppo di amici, ma più vicini a me per interessi. Lui soprattutto, una bella mente, un uomo intelligente e, mi si perdoni la definizione politically incorrect, molto poco meridionale. Secondo mio marito, era quello il mio amante di turno. Colpevole un messaggio assolutamente innocente, trovato sul mio telefonino. Risultato? Un incontro stile siciliano con il rivale, una figura ridicola, che ha causato l'allontanamento dei due amici. Gli comunico che aspetto un altro figlio e lui, dopo aver detto che era impossibile, mi gela con un messaggio inviato a mezzanotte. Avevo rimosso questo ricordo e salta fuori ora, adesso che sto provando a raccontarlo. Era in primavera, aprile del 2005: l’azienda mi aveva convocata a Bologna d’urgenza per il giorno dopo. C’era da licenziare un dipendente a Palermo, un dipendente della filiale che gestivo e che era stato scoperto a rubare nel periodo precedente alla mia assunzione. Non c’erano treni e voli diretti, eravamo nelle vacanze di Pasqua, ma ero riuscita comunque a trovare posto sull'aereo da Roma a Bologna mentre a Roma ci ero andata in auto, con un amico del liceo, che mi avrebbe ospitato a casa sua. E a mezzanotte, dopo uno scambio di messaggi assurdi, mi arriva quello che mi segnerà a vita. “Ho capito, tu stai male perché non sai nemmeno di chi è questo bambino”. Il bambino, ovviamente suo, avrebbe compiuto 11 anni a dicembre prossimo. Lo so, lo so, è stata colpa mia. Dovevo tenerlo e cacciare lui di casa. Ma come avrei fatto? Da allora è stato un lento sgretolarsi di tutto. Di tutto. Era diventato sempre più un estraneo, una cosa da tollerare. Un po’ alla volta si erano ridotte le conversazioni, erano aumentati i silenzi. Cose in comune? Sempre di meno, complice il fatto che avevo ripreso a leggere, in maniera compulsiva, come facevo nella mia vita precedente. Leggere era il mio viaggio con la mente. E poi era finita l’intimità. C’è chi ipocritamente dice che il sesso non è importante. Per me è fulcro del sistema complesso di una relazione. E’ dividere e condividere sé stessi con l’altro. E’ la forma più alta di comunicazione: la fusione di due esseri. Ed è allora che, come se non bastasse, e come ovviamente succede nei momenti di massima fragilità di una donna, arriva lui. Il mio stronzo. Sì, perché ognuna di noi ne ha uno, se è fortunata, nel proprio curriculum. A volte è il marito, a volte è il compagno, ma molto spesso è l’amante. Amante. Gli diamo, ci diamo, questa definizione splendida. Colui che ama. Un participio presente di puro sentimento. E ogni azione si svolge nel presente, in un “adesso e qui”; non proviene da un passato e, spesso, non ha aspettative per il futuro. Oppure sì. Ma certo che sì. Perché se lui è amore, sentimento e passione, ce le hai, eccome, le aspettative per il futuro. Sono nata ad ottobre, un mese di cambiamenti climatici, e ad ottobre l’ho incontrato. Maledetto ottobre. Ormai ero convinta che l’amore esistesse solo nei racconti, nei libri, negli occhi dei miei genitori e di poche altre persone che conosco. Negli occhi del mio cane, negli occhi delle mamme che guardano i propri figli. E invece ho visto lui. Mi sembravi altissimo, quando hai varcato la porta della sala, dove avresti dovuto presentare il tuo libro. Avresti dovuto, perché per me quella sera, c’erano solo i tuoi sguardi, abbastanza eloquenti, i tuoi sorrisi e quel racconto inedito, lo stesso che mi fece commuovere l’anno prima. Alla fine del quale mi stringesti il braccio, forse perché ti eri accorto della mia emozione o semplicemente perché fai così con le tue lettrici non proprio bruttine. E poi sono iniziati i messaggi, prima impersonalmente nella posta del social network che ci ha fatto conoscere, e poi sul più personale cellulare. “Ci sono viaggi che pesano più di altri”, mi scrivesti, la mattina che ti accingevi ad iniziare un giro di promozione del tuo ultimo scritto. Era così. Proprio così. Mi hai voluta vedere, al rientro di uno dei tuoi soliti viaggi, dopo pochi giorni dalla nostra conoscenza. E io non aspettavo altro. Mi hai abbracciata e baciata, nel mezzo di un panoramico piazzale, ed io ti ho lasciato fare, senza curarci degli occhi estranei che potevano vederci. E hai continuato a farlo in quel bar con la saletta superiore, fatta apposta per chi vuole stare in intimità. E poi hai voluto fare l’amore con me. E io non aspettavo altro. Lo avevamo già fatto, con gli sguardi e i gesti, quella domenica mattina in teatro. Non ricordo nemmeno più perché eri lì, ricordo solo che mi facesti spostare perché, da dove ero, non riuscivi a vedermi. Mi dicesti lo stesso a Torino, al salone del libro dove sfidando tutti, dovevo esserci, per l’altro libro, quello che io considero mio. “Fammi vedere dove ti siedi così ti guardo”. E ti girasti verso di me quando mi sentisti ridere alla battuta della tua simpatica presentatrice e quando io ti chiesi, qualche giorno dopo, se avessi riconosciuto la mia risata, mi rispondesti: “Io ti riconoscere al buio e dovunque”. Ricordo tutte le date, sai, tutti i posti. Perché l’unico modo che ho per convincermi della tua esistenza, è ricordare. Ricordi quando sei stato a Montecarlo? Ci siamo incontrati al tuo ritorno nella nostra tana e quando mi hai visto mi hai sollevato in braccio, sembravi felice. E quando sei tornato da Bergamo? “Sono già in strada, quanto ci metti a venire da me?” E io sempre pronta, l’ennesima bugia a mia figlia e via di corsa da te. Sempre pronta ogni volta che tu potevi. Sempre pronta io a telefonarti e a cercarti. La mia disperazione più grande è che ti credo ancora, quando dici di amarmi. E quando mi mandi un bacio, ci credo che è vero. E nel frattempo? A casa mia iniziava l’inferno. Quello vero.
Nel mio cassetto della biancheria intima, conservavo una sua foto, quella del mio amante, insieme a due suoi racconti inediti, che potevo avere solo perché me li aveva dati lui. E il paranoico, in una delle sue perquisizioni, trova tutto. E mi aspetta al varco. Ricordo ancora la sua espressione di godimento quando è entrato nella stanza di mia figlia, allora sedicenne, per dirle: “Io e tua madre ci separiamo perché lei scopa un altro!” E da quel momento, 10 ottobre 2014, per ogni singolo giorno, senza pausa, ogni volta che rientrava dal lavoro fino al momento di andare a letto, era uno stillicidio di accuse, molestie, offese, illazioni, parolacce. C’era o non c’era mio figlio, per lui era lo stesso. E se provavo ad andarmene di casa, per scappare dai miei genitori, mi chiudeva la porta a chiave. E se provavo a telefonare a mio padre, a mia sorella, ai carabinieri, per chiedere aiuto, tirava via la spina del telefono dal muro. E io mi chiudevo in camera da letto a piangere e urlare. A cercare l’altro, a scrivergli messaggi disperati. A chiedere aiuto. Non so più quante foto ai miei polsi lividi per le sue strette, delle mie braccia rosse per i pugni, che ho fatto e che conservo nell'archivio del mio cellulare. Finché un giorno ho trovato il coraggio. Era un sabato mattina e io ero pronta per la spesa. Sull'arco della porta quello che allora era mio marito, mi saluta dicendo: “Non fai gli auguri al tuo ex amore?” Resto perplessa e all'improvviso realizzo che quel giorno, era l'onomastico di quello che lui considerava il mio primo amante. Assurdo, vero? Non potevo sopportare più nulla. Chiedo al mio avvocato di mandargli la richiesta di separazione, pensando così, che davanti alla mia determinazione, la smettesse. E invece le violenze verbali sono aumentate, sono arrivati gli spintoni, i pugni e gli schiaffi. Mi difendo ovviamente, la mia disperazione mi ha fatto trovare una forza fisica insospettata di reagire agli attacchi, facendogli male. Ma era tutto inutile.
Qualche giorno fa ho dovuto occuparmi delle trascrizioni delle registrazioni che avevo l’abitudine di fare, di queste litigate interminabili. Dovevo fornirle ai Carabinieri a corredo della denuncia per percosse fatta circa un anno fa. Mi sembrava fossero passati anni, ma l’incubo e il terrore mi hanno assalito, come se fossi ancora a casa con lui. E ho rivissuto le paure che provavo, quando calava la sera e si avvicinava il suo rientro a casa.
Il momento culminante è stato quando mi ha esclusa dall'organizzazione delle vacanze estive, ed  è partito da solo con mia figlia per la Sardegna. Nel suo immaginario malato, io avrei accettato di andare con loro. Pazzo! L’otto agosto si preparavano per la partenza. Io spettavo con calma che uscissero dalla porta. Ho messo i miei vestiti in una valigia, sono andata all'ufficio postale e con un telegramma gli ho comunicato che avrei abbandonato la casa coniugale per impossibilità di proseguire la convivenza, comunicandogli il mio nuovo indirizzo. Ho vissuto due mesi dormendo sul divano dei miei, con i vestiti nelle borse perché non volevo mettere radici. Il 20 ottobre 2015 ho denunciato l’ennesima aggressione verificatasi pochi giorni prima - ne porto ancora i segni - e il 1° novembre mi sono trasferita nella mia nuova casa con mia figlia. Sacrifici enormi, un prestito in banca, ma la mia tana è pronta. Il 3 marzo di quest’anno abbiamo firmato una consensuale trasformando il mio ricorso per separazione giudiziale, ma dal 1° novembre non ho ricevuto un euro per il mantenimento di mia figlia. Viviamo con il mio stipendio di circa 1000 euro al mese, in due, con l’aiuto dei miei genitori, perché il fitto di 600 euro mi porta via quasi tutto. Ma quando chiudo la porta di casa, dietro ci siamo solo io e Daniela.

E allora? Ne sono uscita? No. La mia storia malata è l’altra, quella con te, mio amato amante. Perché lui ha capito, ha saputo. Glielo hanno detto. Ed è iniziato l’inferno. E lo sto vivendo tutto io questo inferno, per tutelarti. Un inferno che tu non puoi nemmeno immaginare. Ti ho detto che sarebbe stato tutto più semplice se avessi giustificato la separazione confessando che mi sono innamorata di te. Ma taccio per te, per evitare lo scandalo, perché tu sei diventato sempre più famoso, sempre più apprezzato. Tu avevi una compagna, con la quale dividevi il tuo lavoro di scrittore, la casa e nient’altro. Non i figli, perché quelli sono tuoi. Ho detto avevi, perché ad un certo punto della nostra storia, l’hai sposata e lei ha smesso di essere compagna, per diventare moglie. Senza dirmelo, ma continuando a vedermi, fino a raggiungere la perversione di fare l’amore con me, due giorni prima del matrimonio e, ancora, al rientro dal “viaggio di nozze”. Quando l’ho scoperto avrei voluto ucciderti. Ma mi hai implorato di non lasciarti, perché avevi bisogno di me, che c’erano motivi che non potevo capire, che ero la cosa più bella che ti era capitata negli ultimi 5 anni. E sono rimasta. Ed è passato quasi un altro anno, tra momenti di delirio per la distanza e l’impossibilità di vederci e sentirci, e momenti stupendi, di tenerezza, dolcezza e passione. Alti e bassi, ma la consapevolezza e il terrore di non riuscire a fare a meno di te, andavano di pari passo con i dubbi e i sospetti su di te. Sì perché tu sei quello che le tue amiche, quelle del tuo ambiente, definiscono un “seriale”. Uno di quelli che gioca con le donne, grande affabulatore, affascinante oratore e con lo sguardo magnetico. Il mio sesto senso inizia a non farmi dormire. A farmi chiedere: perché? Perché ora che sono libera c’è sempre meno tempo per me? Divento maniaca e ossessiva, come lo era il mio ex marito, e lo capisco. Ah se lo capisco! E poi un giorno vedo lei. L’ennesima manifestazione dove andavo per vederti anche solo un attimo, per capire dai tuoi occhi se ero sempre lì, in fondo al tuo cuore. Ma vedo lei, da sola, a disagio in un ambiente non suo. Riconosco in lei i sintomi che avevo io, agli inizi. O forse no, perché, agli inizi, eri tu a portarmi con te. A farmi entrare in un ambiente in cui poi, non mi sono mai più sentita a disagio. Neanche quando c’era lei. Anzi, mi divertiva il confronto. Perché lei è brutta, sgraziata, sciatta. L’ho rivista il giorno dopo, altra presentazione, era seduta in prima fila, quasi di fronte a te. I particolari non servono, serve sapere che stavo scoprendo che esisteva l’amante dell’amante. Il baratro, il fondo, il pozzo, l’abisso più nero. Chi sei tu, allora? Chi sei? Cosa hai fatto di me? Cosa mi hai fatto? Cosa ti ho lasciato fare? Ma, soprattutto, perché? Non era semplice chiudere la nostra storia? No, perché non vuoi perdermi. Ma vuoi la libertà. La libertà di fare quello che vuoi e quando vuoi. “Ti prego, non buttiamo via questa cosa. E’ una cosa bella”. E io? L’unica cosa che so, è che la mia autostima è finita. Devo uscire da questa dipendenza. Devo uscirne prima che succeda l’irreparabile. Devo gestire la rabbia che ho verso di lui e verso di me. Ho iniziato una terapia psicologica, ma ho tanto bisogno di parlare di questa storia. E vorrei fare in modo di avvertire le falene, che tutto questo brucia irrimediabilmente. E che poi, poi si smette di vivere.


1 commento:

  1. Non ho commentato fino ad ora perché la lettera mi ha lasciato molto scossa, e non vorrei essere indelicata davanti a tanto dolore. Credo che la protagonista sia sofferente, ma consapevole, intelligente e passionale, ma ostinatamente masochista. Bisogna cambiare prospettiva e cominciare a pensare che sia riuscita a prendere il meglio che poteva dell'amante, figura tristemente diffusa e quasi pietosa direi. Iniziamo a guardare questi uomini come vittime di un ego dominante e impietoso e compatiamoli. E poi cominciamo a capire cosa realmente vogliamo, senza etichette, senza retaggi culturali. Cara lettrice, ti abbraccio e sono sicura che rinascerai dalle ceneri più bella e sicura di prima.

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